martedì 6 settembre 2016
George Herbert, "The Altar" (1633)
Poesia concreta, poesia visiva, calligramma. Queste e altre definizioni, diverse per storia e non per uso, coprono tutta una serie di casi in cui la scrittura poetica, oltre che per essere letta, è fatta per essere guardata (o, meno spesso, sentita). Anche se si tende ad associare questo genere di componimento "doppio" al modernismo e alle neoavanguardie, l'idea di scrivere in forme mimetiche o simboliche è vecchia quanto la poesia. Molto prima di Apollinaire e Marinetti, a occupare uno dei posti d'onore nella storia di questo sottogenere è il prete anglicano George Herbert (1593-1633), che compose liriche in forma di altare e di ali di colomba.
Proveniente da una famiglia ricca, potente e ricca di talento artistico, Herbert non si conforma in niente all'idea romantica del poeta maledetto, divorziato dai buoni costumi e dalla società. Pur perseguitato dalla tisi che lo ucciderà a soli quarant'anni, Herbert fa in tempo a studiare a Cambridge, a diventare un pupillo di Giacomo I e a entrare in Parlamento, prima di diventare rettore della chiesa di Sant'Andrea a Salisbury. Mentre John Donne scrive poesie per richiamare l'attenzione di facoltosi mecenati, George Herbert, che non ne ha bisogno, raccoglie le sue solo poco prima della morte, per spedirle poi a Nicholas Ferrar, fondatore della comunità semimonastica di Little Gidding. Per questo motivo, tutte le opere di Herbert sono datate con l'anno di morte del poeta.
Little Gidding, per inciso, è il titolo di uno dei Four Quartets di T.S. Eliot. I Quartets sono il grande poema religioso del modernista americano anglicizzato, che fu fra i grandi rivalutatori della poesia metafisica (e quindi anche di Herbert), nonché il primo scrittore novecentesco capace di rendere la poesia religiosa nuovamente rispettabile. Io, che da italiano senzadio pensavo che la grande poesia potesse solo essere anticristiana, mi sono dovuto ricredere di fronte alla grandezza di questi due poeti dal temperamento affine. T.S. Eliot ho imparato ad apprezzarlo partendo dalla Waste Land e da "Prufrock". La mia maestra universitaria, letterata e cattolica, altro esempio di persona devota e intelligente, mi ha aiutato a capire perché valeva la pena di leggere Herbert.
A venticinque anni, quel che mi colpiva di poesie come "The Altar" era la loro compostezza, la forza quieta di versi capaci di placare il timore della morte - e credo fosse proprio questo, l'effetto che volevano sortire. Oggi invece mi colpisce la grande abilità di Herbert, meno spettacolare di Donne ma non per questo meno geniale. Tanto per cominciare, per creare un altare coi versi, il poeta deve prima diminuirne la lunghezza e poi aumentarla, e quindi accelerare per rallentare sul finale. A due pentametri giambici fanno seguito due tetrametri, poi otto versi di due accenti, e di nuovo due tetrametri e due pentametri. Pur costretto dalla gabbia che si è fabbricato da solo, Herbert riesce lo stesso a scrivere un componimento perfettamente organico:
Non solo "The Altar" è organico e scorrevole: è anche diviso in tre strofe/parti argomentative, che vanno a formare i tre pezzi dell'altare: nella prima, la persona poetica annuncia a Dio che gli ha costruito un altare fatto di parti create da Dio stesso; nella seconda, si spiega che la pietra di cui è fatto l'altare è il cuore di chi scrive - una pietra intagliata da Dio e fatta per celebrarNe il nome; e nella terza si dice il fine di questo altare simbolico, che è quello di continuare a cantare le lodi del signore quando la voce della persona poetica cesserà. Verrebbe da pensare a un corrispettivo devozionale del Sonetto 18 di Shakespeare (quello in cui il poeta dichiara di poter immortalare la bellezza del "fair youth" nei suoi versi), non fosse che il ragionamento di George Herbert è molto più cristianamente modesto.
Non c'è nulla di modesto invece nello stile, che è difficilissimo da tradurre. Chiunque abbia provato a scrivere una poesia o una canzone, in particolare, sa quanto è difficile comporre versi brevi a rima baciata che non scivolino immediatamente nel cliché linguistico. Per questo motivo, qui la mia versione è giocoforza più "di servizio" che in altre occasioni:
Ti dono un altare crepato, Signore,
cementato di lacrime, fatto col cuore;
le parti le hai create tu stesso,
mai toccate, prima di adesso.
Un cuore solo
È un materiale
Che solo la tua
potenza intaglia.
Perciò ogni parte
di un cuore arduo
si unisce insieme
a lodare il tuo nome.
Così che quando dovrò tacere,
saranno le pietre il mio cantore.
Fa che il tuo santo sacrificio sia il mio,
Per santificare questo altare come tuo.
Quanto alla versione cantata: compostezza, pochi strumenti, poche svolte melodiche. E per rispecchiare l'intenzione "concreta" dell'originale, l'uso di qualche suono mimetico che faccia pensare all'acqua del battesimo o al fiume della vita.
Buon ascolto.
venerdì 29 luglio 2016
Edward Lear, "How Pleasant to Know Mr. Lear" (1871)
A poesia bislacca, traduzione bislacca:
"How pleasant to know Mr. Lear!"
Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
But a few think him pleasant enough.
His mind is concrete and fastidious,
His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
His beard it resembles a wig.
He has ears, and two eyes, and ten fingers,
Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
But now he is one of the dumbs.
He sits in a beautiful parlor,
With hundred of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
But never gets tipsy at all.
He has many friends, lay men and clerical,
Old Foss is the name of his cat;
His body is perfectly spherical,
He weareth a runcible hat.
When he walks in waterproof white,
The children run after him so!
Calling out, "He's come out in his night-
Gown, that crazy old Englishman, oh!"
He weeps by the side of the ocean,
He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
And chocolate shrimps from the mill.
He reads, but he cannot speak, Spanish,
He cannot abide ginger beer;
Ere the days of his pilgrimage vanish,
How pleasant to know Mr. Lear!
"Che piacere conoscerlo, Lear!"
Ha scritto dei gran volumoni!
Chi pensa sia strano e cattivo,
chi dice che in fondo è un brav'uomo.
Ha la testa concreta e precisa,
il naso che lascia di stucco,
il viso più o meno mostruoso,
la barba a mo' di parrucca.
Di dita, si dice, ne ha dieci,
contando anche quelle più grosse;
una volta faceva dei berci,
ma ormai se non canta è lo stesso.
Si stravacca in un gran bel salotto,
sui muri ha un sacco di libri;
passa il giorno a bere chinotto
ma niente, ogni sera è più sobrio.
Laici e no, è pieno di amici,
e ha un gatto, il buon vecchio Foss;
tondo come una ruota di bici,
in testa ha un cappello un po' floscio.
Quando passa vestito di bianco,
i bambini gli corrono dietro!
"Guardalo, l'inglese, è anco-
ra in pigiama, quel vecchio matto!"
Lui piange in riva all'oceano,
poi piange sulla collina;
si compra crêpe e lozioni,
e gamberetti alla spina.
Non parla ma legge spagnolo,
non può soffrire la birra:
i giorni ormai passano al volo,
ma è bello conoscerlo, Lear.
Edward Lear (1812-1888) è uno dei personaggi più bislacchi della storia della letteratura inglese. Ennesimo figlio di un agente di cambio caduto in disgrazia, cresciuto più da una sorella maggiore che dalla madre morta presto, Lear era illustratore e pittore di professione. I volumes of stuff a cui si riferisce la poesia, più che volumi letterari, sono i suoi resoconti di viaggio illustrati. Dopo i trent'anni, Lear era dovuto emigrare al sud per via dell'asma e della bronchite, e questi libri di viaggio, insieme ai suoi numerosissimi paesaggi, erano il suo modo di mantenersi (con grande fatica, come attestano le lamentazioni e le annotazioni da partita doppia di molte sue lettere).
Ma non è per i quadri e per le illustrazioni che ricordiamo Lear. Nel 1845, quest'uomo grasso, goffo, epilettico e asmatico, omosessuale non dichiarato (ovviamente) nel bel mezzo dell'Età Vittoriana, pubblica un libretto di rime per bambini che di fatto rappresenta l'inizio della poesia nonsense moderna. La sua forma preferita è il limerick - un breve componimento basato su un toponimo. Di questa forma, Lear dà un'interpretazione del tutto personale: in parte perché ripete il nome di città nel verso finale, rinunciando così a creare una rima significativa e chiudendo i versi con un effetto di bathos; ma soprattutto perché i suoi limerick sono pieni di gente bizzarra e solitaria, impegnata in attività bizzarre e solitarie, e che a volte finisce per essere accoppata da altra gente, senza apparente motivo. Anche in questo caso, le illustrazioni appena abbozzate e un po' fumettistiche sono ovviamente opera dello stesso Lear:
[C'era una volta un signore di Morven / abituato a danzare coi corvi; / la gente gli disse: / "Son solo idee fisse!" / E fece a pezzetti quel tizio di Morven.]
Lear scrive poi dei poemetti più lunghi in cui vari animali, e altre strane creature, si sposano, o se ne vanno per mare, e qualunque cosa facciano piangono spesso, anche qui senza apparente motivo. E pur se le lacrime non si riesce a prenderle del tutto sul serio, e gli accoppamenti fanno pensare a Tom e Jerry più che ai penny dreadfuls, è difficile non pensare che qualcosa delle depressioni di Edward Lear, del suo senso infantile di abbandono, della difficoltà del doversi mantenere lontano da casa con la propria arte, del tenersi per sé l'amore che non può dire il proprio nome, vada in qualche modo a turbare la perfetta quiete giocosa del mondo del nonsense.
La riprova ce la dà "How pleasant to know Mr. Lear!" Il poeta si presenta come un personaggio caricaturale, grasso, nasuto, barbuto e bizzarro. I versi saltellanti, per lo più di 8 o nove sillabe e organizzati in piedi trisillabi, fanno pensare a una filastrocca, non certo a una lirica romantica. La ricerca della rima buffa o storta è evidente: l'inglesissimo parlor viene accoppiato all'italiano marsala (Lear finirà i suoi giorni a Sanremo), oh fa rima con so, la camicia da notte della persona poetica viene strappata in due dall'inarcatura (night- / Gown). Tutto ridicolo, si direbbe: ma poi arriva una quartina in cui "Lear" è inseguito dai bambini urlanti, e a ruota un'altra in cui lo ritroviamo che piange sulle rive dell'oceano e in cima a una collina. E a quel punto, se ritorniamo al primo verso della poesia, ci rendiamo conto che "How pleasant to know Mr. Lear" è per l'appunto fra virgolette, come se lo dicesse qualcun altro, come se - alla luce di quanto segue - non sia poi così scontato che sia un gran piacere, per la gente che lo guarda e lo giudica da lontano, conoscere Mr. Lear.
E invece il punto è proprio questo: Lear non è un grande poeta, ma lo leggiamo perché abbiamo voglia di conoscere "Lear" - perché c'è qualcosa di strano nelle sue poesie, qualcosa di personale, un eccesso di sentimento che guasta la purezza del nonsense e allo stesso tempo gli dà una vita che non si trova, ad esempio, nelle costruzioni perfette e glaciali di Lewis Carroll.
Come fare a dare un'idea di tutto questo in musica? Trasformando la poesia in una canzone di pop-folk-rock leggero e arioso, con una linea di canto che a tratti si inarca e sembra sul punto di rompersi. Con una piccola intro/outro di chitarra sentimentale, e allo stesso tempo un po' disarmonica. Fra le altre cose, Lear suonava diversi strumenti, chitarra compresa - io me lo immagino un po' così, malinconico e semistonato, e son sicuro che me l'immagino male.
Buon ascolto.
"How pleasant to know Mr. Lear!"
Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
But a few think him pleasant enough.
His mind is concrete and fastidious,
His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
His beard it resembles a wig.
He has ears, and two eyes, and ten fingers,
Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
But now he is one of the dumbs.
He sits in a beautiful parlor,
With hundred of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
But never gets tipsy at all.
He has many friends, lay men and clerical,
Old Foss is the name of his cat;
His body is perfectly spherical,
He weareth a runcible hat.
When he walks in waterproof white,
The children run after him so!
Calling out, "He's come out in his night-
Gown, that crazy old Englishman, oh!"
He weeps by the side of the ocean,
He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
And chocolate shrimps from the mill.
He reads, but he cannot speak, Spanish,
He cannot abide ginger beer;
Ere the days of his pilgrimage vanish,
How pleasant to know Mr. Lear!
"Che piacere conoscerlo, Lear!"
Ha scritto dei gran volumoni!
Chi pensa sia strano e cattivo,
chi dice che in fondo è un brav'uomo.
Ha la testa concreta e precisa,
il naso che lascia di stucco,
il viso più o meno mostruoso,
la barba a mo' di parrucca.
Di dita, si dice, ne ha dieci,
contando anche quelle più grosse;
una volta faceva dei berci,
ma ormai se non canta è lo stesso.
Si stravacca in un gran bel salotto,
sui muri ha un sacco di libri;
passa il giorno a bere chinotto
ma niente, ogni sera è più sobrio.
Laici e no, è pieno di amici,
e ha un gatto, il buon vecchio Foss;
tondo come una ruota di bici,
in testa ha un cappello un po' floscio.
Quando passa vestito di bianco,
i bambini gli corrono dietro!
"Guardalo, l'inglese, è anco-
ra in pigiama, quel vecchio matto!"
Lui piange in riva all'oceano,
poi piange sulla collina;
si compra crêpe e lozioni,
e gamberetti alla spina.
Non parla ma legge spagnolo,
non può soffrire la birra:
i giorni ormai passano al volo,
ma è bello conoscerlo, Lear.
Edward Lear (1812-1888) è uno dei personaggi più bislacchi della storia della letteratura inglese. Ennesimo figlio di un agente di cambio caduto in disgrazia, cresciuto più da una sorella maggiore che dalla madre morta presto, Lear era illustratore e pittore di professione. I volumes of stuff a cui si riferisce la poesia, più che volumi letterari, sono i suoi resoconti di viaggio illustrati. Dopo i trent'anni, Lear era dovuto emigrare al sud per via dell'asma e della bronchite, e questi libri di viaggio, insieme ai suoi numerosissimi paesaggi, erano il suo modo di mantenersi (con grande fatica, come attestano le lamentazioni e le annotazioni da partita doppia di molte sue lettere).
Ma non è per i quadri e per le illustrazioni che ricordiamo Lear. Nel 1845, quest'uomo grasso, goffo, epilettico e asmatico, omosessuale non dichiarato (ovviamente) nel bel mezzo dell'Età Vittoriana, pubblica un libretto di rime per bambini che di fatto rappresenta l'inizio della poesia nonsense moderna. La sua forma preferita è il limerick - un breve componimento basato su un toponimo. Di questa forma, Lear dà un'interpretazione del tutto personale: in parte perché ripete il nome di città nel verso finale, rinunciando così a creare una rima significativa e chiudendo i versi con un effetto di bathos; ma soprattutto perché i suoi limerick sono pieni di gente bizzarra e solitaria, impegnata in attività bizzarre e solitarie, e che a volte finisce per essere accoppata da altra gente, senza apparente motivo. Anche in questo caso, le illustrazioni appena abbozzate e un po' fumettistiche sono ovviamente opera dello stesso Lear:
[C'era una volta un signore di Morven / abituato a danzare coi corvi; / la gente gli disse: / "Son solo idee fisse!" / E fece a pezzetti quel tizio di Morven.]
Lear scrive poi dei poemetti più lunghi in cui vari animali, e altre strane creature, si sposano, o se ne vanno per mare, e qualunque cosa facciano piangono spesso, anche qui senza apparente motivo. E pur se le lacrime non si riesce a prenderle del tutto sul serio, e gli accoppamenti fanno pensare a Tom e Jerry più che ai penny dreadfuls, è difficile non pensare che qualcosa delle depressioni di Edward Lear, del suo senso infantile di abbandono, della difficoltà del doversi mantenere lontano da casa con la propria arte, del tenersi per sé l'amore che non può dire il proprio nome, vada in qualche modo a turbare la perfetta quiete giocosa del mondo del nonsense.
La riprova ce la dà "How pleasant to know Mr. Lear!" Il poeta si presenta come un personaggio caricaturale, grasso, nasuto, barbuto e bizzarro. I versi saltellanti, per lo più di 8 o nove sillabe e organizzati in piedi trisillabi, fanno pensare a una filastrocca, non certo a una lirica romantica. La ricerca della rima buffa o storta è evidente: l'inglesissimo parlor viene accoppiato all'italiano marsala (Lear finirà i suoi giorni a Sanremo), oh fa rima con so, la camicia da notte della persona poetica viene strappata in due dall'inarcatura (night- / Gown). Tutto ridicolo, si direbbe: ma poi arriva una quartina in cui "Lear" è inseguito dai bambini urlanti, e a ruota un'altra in cui lo ritroviamo che piange sulle rive dell'oceano e in cima a una collina. E a quel punto, se ritorniamo al primo verso della poesia, ci rendiamo conto che "How pleasant to know Mr. Lear" è per l'appunto fra virgolette, come se lo dicesse qualcun altro, come se - alla luce di quanto segue - non sia poi così scontato che sia un gran piacere, per la gente che lo guarda e lo giudica da lontano, conoscere Mr. Lear.
E invece il punto è proprio questo: Lear non è un grande poeta, ma lo leggiamo perché abbiamo voglia di conoscere "Lear" - perché c'è qualcosa di strano nelle sue poesie, qualcosa di personale, un eccesso di sentimento che guasta la purezza del nonsense e allo stesso tempo gli dà una vita che non si trova, ad esempio, nelle costruzioni perfette e glaciali di Lewis Carroll.
Come fare a dare un'idea di tutto questo in musica? Trasformando la poesia in una canzone di pop-folk-rock leggero e arioso, con una linea di canto che a tratti si inarca e sembra sul punto di rompersi. Con una piccola intro/outro di chitarra sentimentale, e allo stesso tempo un po' disarmonica. Fra le altre cose, Lear suonava diversi strumenti, chitarra compresa - io me lo immagino un po' così, malinconico e semistonato, e son sicuro che me l'immagino male.
Buon ascolto.
domenica 3 luglio 2016
John Donne, Break of day (pubbl. 1633)
"Break of day" è una delle poesie più ingegnose della letteratura inglese. Eccola qua:
Break of day
'Tis true, 'tis day; what though it be?
O wilt thou therefore rise from me?
Why should we rise because 'tis light?
Did we lie down because 'twas night?
Love, which in spite of darkness brought us hither,
should in despite of light keep us together.
Light hath no tongue, but is all eye;
If it could speak as well as spy,
This were the worst that it could say,
That being well, I fain would stay,
And that I loved my heart and honor so
That I would not from him, that had them, go.
Must business thee from hence remove?
O, that's the worst disease of love.
The poor, the foul, the false, love can
Admit, but not the busied man.
He which hath business, and makes love, doth do
Such wrong, as when a married man doth woo.
Si leva il giorno
Vero, è giorno: e allora, poi?
Perché dovremmo alzarci noi?
Solo perché non è più notte?
Per la notte si era a letto?
L'amore che con il buio ci ha sorpresi
con la luce deve tenerci presi.
Non ha lingua la luce, solo occhi;
se sapesse anche parlare, oltre che
vedere, direbbe questo:
che stavo bene e sono rimasto,
e avendo a cuore il mio cuore e l'onore
chi li aveva non ho voluto lasciare.
Hai da fare, dici, devi andare?
È il peggior male dell'amore.
I poveri, i brutti, i falsi senz'altro
lo accolgono, non l'uomo occupato.
Chi ha da fare e fa l'amore fa peggio
dell'uomo sposato che un'altra corteggia.
Questa volta la traduzione dev'essere abile, rimata, piena di trucchi e sorprese, per stare dietro alle capacità pirotecniche del poeta. John Donne (1572-1631), poeta londinese, prelato protestante di famiglia cattolica, è uno dei tanti motivi per cui conviene studiare la letteratura inglese. Quando ero studente, il primo poeta che mi ha preso è stato T.S. Eliot - a vent'anni, quando sei convinto di essere molto di più di quello che sei, quando hai le spese pagate ma ti vuoi immaginare unico sopravvissuto in un deserto di anime, Prufrock (1917) e la Waste Land (1922) hanno un fascino pressoché irresistibile. Bene, subito dopo il giovane vecchio che conosceva Ezra Pound e la Woolf è arrivato John Donne - uno che era morto trecentocinquant'anni prima. Eppure, un po' come capita con i sonetti di Shakespeare, nelle sue poesie si entrava senza bisogno di un'introduzione o di una singola nota al margine.
Il perché, a distanza di più di vent'anni, mi è chiarissimo. A noi - eravamo due o tre a scambiarci citazioni, sentendoci grandi intellettuali - non interessavano le ultime poesie di Donne, cristiane e luttuose. Quello che ci affascinava di lui era la capacità di riassumere in pochi versi la cosa che ci interessava più di tutte - più della letteratura o di ogni altra arte: le ragazze, la conquista, il corteggiamento. A me in particolare, confusamente, sembrava che se fossi riuscito a distillare in prosa i ragionamenti in versi del vecchio John, avrei trovato la chiave che cercavo ormai da una decina d'anni, la soluzione a tutti i miei problemi:
I wonder, by my troth, what thou and I
Did, till we loved? Were we not weaned till then,
But sucked on country pleasures, childishly? [...]
And now good morrow to our waking souls,
Mi chiedo, santoddio, cosa abbiamo fatto
io e te, prima? Ancora non svezzati,
in fasce, succhiavamo latte rustico? [...]
E ora buongiorno, nostre anime sveglie,
For God's sake hold your tongue, and let me love
Per Dio, sta' un po' zitto, lasciami amare
Naturalmente non era vero, e sarebbe stato meglio imparare lo spagnolo in vista dei balli latini. Ma intanto, imparando a memoria un incipit, una singola strofa, un verso qua e là, prendevo il ritmo e capivo, piano piano, il gioco di Donne. Che è un poeta barocco, un giocoliere, un amante dello svolazzo, ma a differenza di altri poeti a cui assomiglia e da cui magari ha imparato - Giambattista Marino, per dirne uno italiano - non gioca mai solo per giocare. La sua logica antitetica è ferrea e incalzante come i versi, per lo più divisi in unità logiche e metriche:
Why should we rise / because 'tis light?
Did we lie down / because 'twas night?
Ma dietro a questa logica ferrea - e qui entra in gioco come al solito l'imponderabile, quel che si può illustrare ma non dimostrare - si sente che c'è qualcosa di vero, una donna amata, il vero dispiacere di vederla andare via la mattina, perché il mondo chiama e lei, dice, ha da fare.
La canzone questa volta ricalca la logica e la versificazione di Donne, invece di forzarla. I tetrametri dei primi quattro versi di ogni strofa vengono divisi in due. Le frasi della linea melodica, qui, sono scandite e tronche. I due versi conclusivi, invece, più lunghi (pentametri) e discorsivo/amorosi, vengono ripetuti e lasciati andare un po' di più. Per il resto, nell'arrangiamento, poche decorazioni progressive, come a sottolineare il procedere dell'argomentazione. John Donne, alla fine, vale la pena seguirlo: ha sempre ragione lui.
Buon ascolto.
martedì 21 giugno 2016
William Blake - The Tyger (1790-92)
Prima di dire qual è, da sempre, il mio problema con Blake, conviene mostrare la poesia con sotto la mia traduzione. Eccola, la filastrocca più misteriosa e inquietante della storia della letteratura inglese:
Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?
In what distant deeps or skies,
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?
And what shoulder, & what art,
Could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
What dread hand? & what dread feet?
What the hammer? what the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? what dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?
When the stars threw down their spears
And water'd heaven with their tears,
Did he smile his work to see?
Did he who made the Lamb make thee?
Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?
Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
ha plasmato la simmetria fatale?
In che cieli o fondali remoti
forgiato il fuoco degli occhi?
Con che ali osa levarsi?
Con che mano ghermire la fiamma?
E quale arte, e che vigore
ti avrà mai incordato il cuore?
E quando ha dato il primo colpo,
che paurosa mano, quale piede?
Che catena? Quale martello?
Che fornace per il tuo cervello?
Quale incudine, quale presa
ha afferrato il tuo terrore?
Quando le stelle hanno calato le spade
e bagnato la terra di lacrime
la sua opera gli è sembrata bella?
Ti ha fatto lo stesso che ha fatto l'Agnello?
Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
osa plasmare la simmetria fatale?
Il mio problema con Blake - un problema che ho dal secondo anno di università - deriva dal fatto che sono cerebrale, e voglio avere prove tangibili dell'abilità degli scrittori e delle scrittrici che leggo. Questo, con i poeti, non è sempre possibile: Emily Dickinson, per esempio, è quasi impossibile coglierla nell' "atto della grandezza". Le sue poesie sembrano trotterellare innocue, come un gatto ingobbito su un prato dove vola una mosca, finché un verso non lascia spazio al seguente e chissà come - nel frattempo avevamo sbattuto gli occhi - il gatto è balzato in aria e la mosca è sparita. Ted Hughes, nei suoi momenti migliori, fa più o meno lo stesso effetto, anche se in questo caso vien più da pensare allo sguardo di una volpe o al salto di un luccio. Sono poeti che non sai come fanno, a scrivere da Dio (l'espressione non è casuale, vista la poesia di cui si parla), ma in qualche modo lo fanno.
Blake però non mi fa questo effetto, anche se le sue poesie sono ancora più semplici di quelle della Dickinson. Le sue cose brevi mi suonano quasi sempre come filastrocche moraleggianti o sentimentali. I suoi poemi mistico-filosofici - forse perché sono passati duecento anni - mi sembrano pedestri e prevedibili, semplici inversioni della dottrina cristiana. Un'anima semplice senza l'abilità del balzo - un sopravvalutato, come quasi tutti i poeti a cui è stata appiccicata l'etichetta di romantici.
Blake non mi coglie di sorpresa - non come fanno la Dickinson e Ted Hughes, perlomeno. L'unica cosa sorprendente di Blake è che quando poi arriva a sorprendermi, quelle rare volte che lo fa, ci riesce in modo cerebrale. Una poesia come "The Tyger" funziona perché è semplice e diretta come le altre - è una piccola filastrocca filosofica, di fatto - però non ha nessun messaggio da trasmettere. Il trucco è un po' quello di tutte le religioni e di tutti i finti poeti del mondo: butta là una manciata di cose oscure, contraddittorie o incomprensibili e sembrerai profondo.
"The Tyger" è un testo religioso senza religione: c'è questa tigre che sembra creata direttamente da un Dio, o forse dall'uomo, come potrebbe indicare il riferimento prometeico dell'ottavo verso. A tratti la tigre sembra simboleggiare la morte, a tratti il male: in ogni caso, l'impressione netta è che si tratti di una tigre simbolica e non reale - come prova l'espressione inumana e inanimata dell'illustrazione di Blake. La natura simbolica dell'animale porta naturalmente il lettore - già incline di suo ad allegorizzare - a cercare un significato "profondo". Come sempre, nei testi letterari, il significato più profondo non c'è, e a raschiare la pagina si trova quella seguente: ma la poesia è costruita in modo tale da invitare una lettura simbolica, e allo stesso tempo da eluderla.
Mi sono contraddetto varie volte, il che a Blake piacerebbe moltissimo. Per riassumere: 1) Le poesie di Blake sono semplici, ma non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson; 2) Ne consegue che "The Tyger" non dovrebbe sorprendermi; 3) Eppure lo fa, anche se non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson. Aggiungo che per capirla non c'è bisogno di conoscere la bislacca cosmogonia di Blake, e neanche di aver letto l'equivalente Song of Innocence "The Lamb" (cui allude il verso 20). Per apprezzarla meglio, però, è una buona idea quella di immaginarsela nella cornice illustrativa creata con gran fatica dal poeta stesso (si veda l'immagine qui sopra). La tradizione letteraria anglosassone, incentrata sulla parola e basata sulle edizioni critiche, ha tramandato queste poesie come testi: ma Blake era un grande incisore, e "The Tyger", sopra quella tigre disegnata e fra i rami di quell'albero, scritta in caratteri arancioni come le striature della bestia, fa tutt'un altro effetto.
Quanto alla canzone: per complicare ulteriormente le cose, o confermare l'apparenza di semplicità complicata della poesia, si è pensato di farne una canzoncina new wave estiva e commerciale. Troppo spesso pensiamo ancora alla poesia romantica, o alla poesia in generale, come a una sequela di versi gnomici, amorosi o libertari declamati a gran voce in cima a una montagna, col vento che scompiglia i lunghi capelli del sensibilissimo artista. È ora di cambiare. Ma forse quest'ultima frase contraddice tutto quel che ho detto prima.
In ogni caso - buon ascolto.
domenica 5 giugno 2016
John Milton - Sonnet 19 (1652?)
When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent
To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"
I fondly ask. But patience, to prevent
That murmur, soon replies, "God doth not need
Either man's work or his own gifts; who best
Bear his mild yoke, they serve him best. His state
Is Kingly. Thousands at his bidding speed
And post o'er Land and Ocean without rest:
They also serve who only stand and wait."
Quando penso alla mia luce spenta
prima di mezza via, nel grande mondo oscuro,
e a quel Talento che nascosto è morte
in me inusato, pur se l'Anima tende
a servirci il mio Creatore, rendere
i conti in ordine, che non mi sgridi;
"Sudore diurno esige Dio, ma senza luce?"
chiedo, sciocco. Ma la pazienza trattiene
il borbottio e risponde: "A Dio non servono
la fatica dell'uomo e i propri doni; chi meglio
porta il suo lieve giogo, meglio serve. Egli
è Regale. Migliaia per lui percorrono
la Terra e l'Oceano senza sosta:
lo serve anche chi non parte e resta."
Un altro sonetto, d'accordo - come i due di Shakespeare, come la versione petrarchesca di Surrey. La forma breve ben si presta alla canzone folk-pop-rock, e il sonetto è quasi sempre breve, eufonico e ad effetto. Qui, tuttavia, siamo lontanissimi dalle pene d'amore stilizzate di Petrarca e dall'ironia colloquiale del Bardo. Il sonetto di Milton ha intanto uno schema rimico diverso, più intrecciato e meno facile alla lettura (uno schema parzialmente disatteso in traduzione, soprattutto con la shakespeariana consonanza finale). Non parla d'amore soddisfatto o disilluso, ma della frustrazione che il poeta prova di fronte alla cecità, e di come l'afflizione gli impedisca di servire il Creatore come vorrebbe. Ma soprattutto, mentre i sonetti di Petrarca, Surrey, Shakespeare e mille altri sono composizioni cortesi e composte, spesso argomentate per singoli versi ("Shall I compare thee to a summer's day?"), questa poesia si compone di due lunghi periodi, uno lungo sette versi e mezzo e l'altro sei e mezzo. La sintassi è complicata, tanto che in certi momenti non si capisce bene cosa stia dicendo la persona poetica, e bisogna arrivare in fondo al primo lunghissimo periodo per esserne sicuri. Come hanno detto critici molto più bravi di me, leggere Milton, qui come nel Paradise Lost, significa quasi sempre rivedere le proprie ipotesi di lettura frase per frase.
Una breve parafrasi serve a: 1) spiegare quanto è semplice, nella sostanza, quel che sta dicendo la persona poetica; 2) dimostrare che le parafrasi sono inutili. Pensando alla cecità che lo rende inabile al vero lavoro, al lavoro che gli servirebbe a non sprecare i talenti che gli ha dato il creatore, al poeta viene una rabbia tale che lo porta a fare una domanda stupida: ma come, Dio mi chiede di fare ogni giorno del lavoro, e mi toglie gli occhi? (versi 1-8). Ma la pazienza lo mette a tacere, ricordandogli che Dio non ha bisogno né della fatica dell'uomo né del frutto dei doni che lui stesso distribuisce, che ci sono già moltitudini che lo servono per terra e per mare, e che anche chi sta fermo e aspetta può essere un buon servitore (versi 8-14). La poesia, naturalmente, è tutt'altro, e molta della sua bellezza risiede nei suoi continui scarti di significato - e, per il lettore, di comprensione.
Se uno prende la prima quartina da sola, per esempio:
When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent
sembra che quella "Soul more bent" del quarto verso sia un'anima piegata dalle avversità, magari dalla cecità stessa. In realtà, come si scopre nel verso seguente, l'anima è più "incline" (bent) a servire il creatore con "quel talento" (that one Talent) che era stato lasciato a penzolare nel terzo verso:
To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"
La persona poetica sente di dover far fruttare il proprio talento - metterlo al servizio della rivoluzione puritana, per esempio, come Milton ha fatto fin dai primi anni Quaranta - per non incorrere nelle rampogne del Creatore che gli ha dato il talento perché ne facesse qualcosa. Nel sesto verso c'è quel verbo chide, sgridare, che sembra introdurre il discorso diretto seguente. "Dio esige (forse) il tuo lavoro di ogni giorno negandoti la luce?" verrebbe da tradurlo, pensando che sia Dio a porre la domanda, forse in modo sarcastico. Ma ancora una volta la sintassi ubriacante di Milton ci ha sbilanciato, e scopriamo che questa domanda la pone in realtà la persona poetica stessa - concludendo infine la frase principale a sette versi dall'inizio del periodo:
I fondly ask.
La domanda, nei sei versi e mezzo seguenti, viene smontata con argomenti calmi e imperiosi dalla pazienza del poeta stesso. E tuttavia, per come è fatto il sonetto, è quella domanda centrale che ci rimane in testa, e che ho deciso di mettere al centro della struttura della canzone: "Doth God exact day-labour, light denied?" Se letto in maniera lineare, il sonetto è un'auto-ingiunzione alla pazienza, a confidare nella saggezza divina. Milton il grande studioso e linguista, Milton il giovane poeta prodigio, Milton il polemista folgorante della Rivoluzione puritana, Milton che scriverà il più grande poema epico cristiano di tutti i tempi, si mette in scena come un Sansone impotente, impaziente, che si risolve infine ad aspettare istruzioni dall'alto. Ma la poesia non funziona come un pamphlet sul divorzio o sulla libertà di stampa. La poesia segue le sue regole, non permette di mentire, e in questo caso ci lascia l'impressione che la rabbia (fondly) sia più potente del ragionamento (Patience, to prevent).
Questa, perlomeno, è la mia lettura, e questa lettura sta alla base della canzone.
Buon ascolto.
mercoledì 18 maggio 2016
Edward Thomas - Adlestrop (1917)
Quando ho cominciato a musicare poesie
della tradizione britannica mi sono detto due cose:
1. L'idea in sé è
sbagliata; e tuttavia –
2. Magari mi aiuterà a capire meglio
le poesie che metto in musica.
Ma per quanto il secondo punto mi
sembrasse plausibile, non ci ho creduto davvero finché non sono
arrivato a Edward Thomas. Sfogliavo, come mi capita in questi giorni,
le pagine dei due volumi della Norton Anthology, in cerca di poesie
non troppo lunghe e non troppo ritmicamente discontinue. Arrivato ai
poeti della prima guerra mondiale, ecco i soliti noti: Siegfried
Sassoon, troppo stridente e indignato; Wilfried Owen, troppo forte
per i miei accordi, almeno per ora; Isaac Rosenberg, troppo
articolato e ironico. Insieme a loro c'era Edward Thomas, e fra le
poesie di questo londinese di famiglia gallese c'era “Adlestrop”.
Eccola qua, in originale e in traduzione:
Yes, I remember Adlestrop
The name, because one afternoon
Of heat, the express-train drew up
there
Unwontedly. It was late June.
The steam hissed. Someone cleared his throat.
No one left and no one came
On the bare platform. What I saw
Was Adlestrop – only the name.
And willows, willow-herb, and grass,
And meadowsweet, and haycocks dry,
No whit less still and lonely fair
Than the high cloudlets in the sky.
And for that minute a blackbird sang
Close by, and round him, mistier,
Farther and farther, all the birds
Of Oxfordshire and Gloucestershire.
Sì, mi ricordo di Adlestrop –
il nome, quel pomeriggio
di caldo, l'espresso che di solito
non ci si fermava. Fine giugno.
Uno sbuffo di vapore, un colpo di
tosse.
Nessuno scendeva o saliva
dal binario spoglio. Quel che vedevo
era Adlestrop – il nome e basta.
E i salici, i fiori e i fili d'erba,
l'olmaria e il fieno asciutto,
non meno belli e solitari
delle nuvole alte in cielo.
E poi d'un tratto cantò un merlo
lì vicino, e poi più vaghi
intorno a lui tutti gli uccelli
di Oxfordshire e Gloucestershire.
Non avevo mai capito cosa ci facesse,
Edward Thomas, in compagnia degli altri. Vero che era morto in
battaglia nel 1917; ma per il resto, cosa c'entrava lui con gente
come Owen e Rosenberg? Le sue poesie non parlavano di guerra, ma di
stazioni ferroviarie di campagna. “Adlestrop” avevo provato a
leggerla e non ne avevo capito il senso – cioè, non avevo capito
il movente che aveva spinto Thomas a scriverla, e quelli della Norton
Anthology, e di molte altre antologie, a includerla. Mentre Owen e
Sassoon raccontavano i corpi straziati in battaglia, Edward Thomas
parlava di un viaggio in treno e di una fermata in un paesino dal
nome bislacco. Dov'era, in questa piccola poesia, la grandiosità dei
temi e la forza dei sentimenti che mi aspettavo dalla grande poesia?
Cosa ci faceva, “Adlestrop”, a poche pagine di distanza da T.S.
Eliot e W.B. Yeats?
Quando l'ho cantata, e mi sono dovuto
far rotolare le parole sulla lingua, ho capito. Quel che sembra
casuale è in realtà casual,
informale, colloquiale e perfetto. La prima strofa, come tutto il
resto, è già un capolavoro di adattamento della forma alla sostanza
– anzi, la prima strofa è forma che diventa sostanza.
Yes, I remember Adlestrop
The name, because one afternoon
Of heat, the express-train drew up
there
Unwontedly. It was late June.
Come il sonetto 18 di Shakespeare,
questa poesia comincia come se continuasse – ma con un senso
dialogico ancora più forte, perché sembra che chi parla stia
rispondendo a qualcuno. Prima ancora di sapere dove ci troviamo,
arriva il verbo “remember”, che ci trasporta immediatamente nel
passato. Le forme verbali “drew up” e “was” confermano che
questa poesia è rivolta indietro, come anche il complemento “one
afternoon” e l'avverbio “unwontedly” (insolitamente). E non si
tratta di un passato recente, di una cosa accaduta da poco e separata
dal presente solo per via dell'atto della scrittura. Questo è un
ricordo – un piccolo avvenimento remoto.
Che cos'è che rende chiaro che questa
quartina è elegiaca? Difficile da dire con precisione, ma deve avere
a che fare con quell' “Yes, I remember” iniziale – qualcuno gli
ha chiesto se se la ricorda, Adlestrop? E poi con la vaghezza della
collocazione temporale (“one afternoon”) e dei ricordi (solo il
nome, ha in mente, probabilmente perché ha visto il cartello),
nonché con il tempo atmosferico sospeso, fermo come il treno
(“heat”, “drew up there”, “It was late June”). E infine,
ed è qui che la forma diventa sostanza, sono i versi stessi, chissà
come, a suonare elegiaci. Un solo periodo, quattro frasi colloquiali
che corrono l'una nell'altra per mezzo di inarcature. Il ritmo è
regolare ma continuamente variato, da quel primo tetrametro giambico
con inizio trocaico a quel quarto così perfettamente giambico ma
spezzato in due, passando per il secondo anch'esso giambico (ma
spezzato dopo il primo quarto) e per il terzo che ha nove sillabe (ma
secondo le regole della metrica sillabico-accentativa, è comunque un
tetrametro perché “there” non è accentata). E poi ci sono
quelle parole ed espressioni isolate dal resto: “Yes”, “the
name”, “unwontedly”; e la parola “Adlestrop”, che dovrebbe
essere ridicola e riesce a suonare perfetta. Non c'è quasi bisogno
di sapere che questa poesia esce proprio nel 1917, per sentire che
celebra un mondo amato e lontanissimo.
Ben prima che Edward Thomas elenchi
alberi e piante dell'Inghilterra rurale, ben prima di quegli uccelli
dell'Oxfordshire e Gloucestershire dell'ultimo verso (e il
riferimento alle contee è di per sé nostalgico), la fondamentale
elegiaca è già risuonata all'orecchio del lettore (se quel lettore
è diverso da me, e ha l'orecchio buono). Per questo è sembrato
giusto scrivere e arrangiare una canzone pacata, bucolica,
armonicamente statica.
Buon ascolto.
sabato 7 maggio 2016
William Shakespeare - Sonnet 130
Il sonetto 130 di Shakespeare, per quel che mi riguarda, si incentra sull'effetto presa di corrente. Per chi ha figli, nipoti, o bambini per casa, la spiegazione è immediata. Quando il bambino è ancora piccolo ma non più in fasce, in quel periodo della vita in cui è capace di quasi tutto ma non capisce quasi niente, gli adulti sono costretti a modificargli il mondo intorno perché non si uccida - e quando il mondo non si può modificare, a fargli capire con il tono appropriato che se tocca il fuoco si fa molto male, se si sporge dalla finestra muore. Ora, a molti di voi sarà capitato di additare a un bambino una presa di corrente, dicendo: "No!" o "Cacca!". Se vi è capitato, sapete bene che il bambino non sente il divieto, ma vede quello che indica il dito - e l'oggetto o luogo in questione diventa immediatamente irresistibile. A salvare la vita dei nostri figli, di fatto, non è un buon progetto educativo, ma il progresso nell'isolamento elettrico.
"My mistress' eyes are nothing like the sun" funziona così, fin dal primo verso. Quel che ci dice il tizio che scrive, che parla - anche qui noi sentiamo una voce originale, forte, sfrontata, e quindi ci pare di sentire un tizio che parla - è che gli occhi della sua donna, al sole, non somigliano proprio per niente. La donna è la "dark lady", la seconda figura non convenzionale celebrata nei sonetti insieme al "fair youth" del 18 e degli altri componimenti omoerotici. Questa signora è per l'appunto scura, non diafana come si conviene ("If snow be white, why then her breasts are dun"); ha i capelli neri e grossi che le crescono in testa come fossero erbacce ("if hairs be wires, black wires grow on her head"); non ha quel piacevole rossore sulle guance che deve avere la donna petrarchesca ("But no such roses see I in her cheeks"); ha un alito forte, forse addirittura sgradevole (e del resto, non è che l'igiene personale dell'Inghilterra elisabettiana fosse paragonabile alla nostra); e non cammina sollevata dal suolo come una dea ("My mistress when she walks treads on the ground").
E tuttavia: quel che sentiamo se ascoltiamo la voce del tizio, se leggiamo il sonetto ad alta voce, se ascoltiamo la canzone qui sopra, è anche una serie di termini positivi, tradizionalmente "solari", spesso sistemati nei punti cruciali dei versi: sun, red, white, cheeks. E anche se la persona del poeta ci dice che la sua donna non è una dea, il paragone rimane, e la parola goddess sta lì, molto vicina a mistress. Il modo in cui gli umani usano il linguaggio non è solo logico-razionale, per cui l'effetto sul lettore, al di là dell'argomentazione, dipende anche dalla versificazione così armoniosamente scorrevole (si veda il primo verso, con i suoi suoni sibilanti, le sue vocali rotanti e il ritmo giambico quasi perfetto), dalla struttura perfettamente bilanciata (i primi quattro versi sono leggibili singolarmente; seguono otto versi che vanno letti a coppie e il distico finale che contraddice il resto) e dalla collocazione delle parole. Ha un bel dirci, il tizio, che la sua donna non è niente di speciale; vicino ai termini negativi (si veda soprattutto quel reeks alla fine dell'ottavo verso) si affollano parole dalla connotazione positiva, che il nostro cervello non può fare a meno di associare alla donna. Molto prima del distico conclusivo, abbiamo il sospetto che la signora in realtà non sia niente male. Provate a sentire, alla fine della canzone, l'effetto del coretto che dice "She's nothing like the sun" (unica frase aggiunta).
My mistress' eyes are nothing like the sun;
Coral is far more red than her lips' red;
If snow be white, why then her breasts are dun;
If hairs be wires, black wires grow on her head.
I have seen roses damasked, red and white,
But no such roses see I in her cheeks;
And in some perfumes is there more delight
Than in the breath that from my mistress reeks.
I love to hear her speak, yet well I know
That music hath a far more pleasing sound.
I grant I never saw a goddess go;
My mistress when she walks treads on the ground.
And yet, by heaven, I think my love as rare
As any she belied with false compare.
Gli occhi della mia donna non c'entrano col sole;
non c'entrano col rosso del corallo le sue labbra;
se la neve è bianca, beh, i seni son sul grigio;
se i capelli son fili, ha corde nere sulla testa.
Ho visto rose damascate, rosse e bianche,
ma a lei nessuna rosa vedo sulle guance;
e certi profumi danno molto più piacere
del fiato forte che la mia donna esala.
Adoro la sua voce, ma so bene
che la musica ha un suono ben più dolce.
Non ho mai visto, devo dire, il passo di una dea;
la mia donna, quando passa, incede sulla terra.
Eppure, per gli dei, trovo il mio amore raro
più di tanti altri proclamati senza pari.
Per questo ribaltamento dei cliché sonettistici, tutto sommato scherzoso, è sembrato appropriato il pop britannico degli anni Ottanta, nella sua versione più leggera e solare. Certe cose di Lloyd Cole, insomma, o le canzoni in maggiore di The The. O gli Smiths, se si fa astrazione dai testi di Morrissey.
Insomma: buon ascolto.
domenica 24 aprile 2016
Thomas Wyatt - Whoso list to hunt
Questa seconda poesia-canzone è una traduzione - la versione di Sir Thomas Wyatt (1503-1542) del sonetto 190 di Petrarca. Tuttavia, strano a dirsi, non basta metterla di fianco al sonetto originale ("Una candida cerva sopra l'erba") per capirla. Il termine traduzione, nel Cinquecento inglese, copriva una serie di pratiche che noi oggi chiameremmo riscritture o parafrasi. La letteratura inglese stava (ri)nascendo, e aveva bisogno di ingoiare i grandi autori classici e contemporanei, risputandoli poi a modo suo. Nell'Europa del Cinquecento, pochi scrittori "moderni", forse nessuno, erano più grandi di Petrarca. I gentiluomini lo leggevano in italiano, e quindi tradurlo serviva più a fondare una tradizione sonettistica che a portare il poeta italiano in Inghilterra.
Chi vuole confrontare Wyatt con Petrarca può farlo facilmente per conto suo. Qui sotto metto il sonetto inglese con una mia traduzione italiana un po' modernizzante.
Whoso list to hunt, I know where is an hind,
But as for me, alas, I may no more.
The vain travail hath wearied me so sore
I am of them that farthest cometh behind.
Yet may I by no means, my wearied mind
Draw from the deer, but as she flieth afore,
Fainting I follow. I leave off therefore,
Since in a net I seek to hold the wind.
Who list her hunt, I put him out of doubt,
As well as I, may spend his time in vain.
And graven with diamonds in letters plain
There is written, her fair neck round about,
"Noli me tangere, for Caesar's I am,
And wild for to hold, though I seem tame."
Se c'è chi vuol cacciare, so dov'è una cerva -
che io, ahimè, non ce la faccio più.
Tenerle dietro mi ha sfinito a tal punto
che sono di quelli che restano più indietro.
Ma non posso lo stesso rivolgere il pensiero
se non alla cerva che fugge là davanti,
e la seguo senza forze. Perciò mi arrendo -
non si può prendere il vento col retino.
Chi la vuol prendere, gli tolgo tutti i dubbi,
è facile che come me perda del tempo.
Al bel collo la cerva, fatta di diamanti,
porta una scritta incisa, bella chiara:
"Noli me tangere, perché sono di Cesare,
e sembro mansueta, ma sono selvatica."
Wyatt è uno dei padri della poesia inglese moderna - un centinaio delle sue poesie entrarono, a quindici anni dalla morte, nella cosiddetta Tottel's Miscellany del 1557. In questa traduzione si vedono sia i suoi limiti (che sono i limiti di un'epoca) sia i suoi pregi (che sono dell'epoca ma anche figli del suo talento). Rispetto al sonetto petrarchesco, a qualunque sonetto petrarchesco, questa versione inglese è meno scorrevole. Già la struttura della poesia (tre quartine e un distico, contro l'ottava+sestina del sonetto italiano) è più spezzata e meno discorsiva. Ma in realtà sono i versi di Wyatt a essere più separati fra loro (end-stopped) di quelli di Petrarca - talmente scanditi che molto spesso si dividono chiaramente in due emistichi che corrispondono a unità sonore e grammaticali:
Whoso list to hunt | I know where is an hinde
But as for me, alas | I may no more
Per contro, però, questa scansione così chiara, quasi ripetitiva, dà un'energia al sonetto che Petrarca (maestro della versificazione armoniosamente continuata) non si sogna neanche. Grazie alle allitterazioni e all'uso quasi esclusivo di monosillabi di origine germanica - che ci fanno capire come Wyatt sia ancora in qualche modo in contatto con la poesia anglosassone e medio-inglese - i versi acquistano una forza esplosiva e propulsiva notevole. E forse non è un caso che mentre la poesia di Petrarca è contemplativa ("Una candida cerva sopra l'erba / verde m'apparve [...]"), quella di Wyatt è attiva e dinamica: lui non avrà più la forza di darle la caccia, ma noi la cerva e l'inseguimento ce li immaginiamo lo stesso.
Metterla in musica, una poesia così, è un piacere e un divertimento. A parte un paio di ripetizioni (il primo verso, il distico finale), non c'è stato bisogno di cambiare niente. L'unica cosa che chiedevano, questi versi, era il movimento - e quindi il primo strumento ad andare in registrazione è stato il rullante. Anche i versi della canzone, come quelli della poesia, si sono spesso divisi in emistichi: questo, oltre che di rendere più incalzante la linea melodica, ha permesso a chi canta di indugiare su frasi splendide come "Since in a net I seek to hold the wind". C'è tutto Wyatt e niente Petrarca, nel settimo verso: il ritmo dei tre piedi giambici finali ("I seek to hold the wind"); l'energia anglosassone dei monosillabi; il misto di sibilanti (since, seek), nasali (net, wind) semiconsonanti (wind), aspirate (hold) e vocali che dà l'idea del vento inafferrabile, con quel suono occlusivo <k> buttato là in mezzo a ricordarci la fatica della caccia (seek).
E anche la parola "hind", a pensarci bene, è splendida - e il fatto stesso che l'inglese, a differenza dell'italiano, abbia una parola per la femmina del cervo. E quel finale così erotico: "And wild for to hold, though I seem tame". Sarà meno elegante di Petrarca, Wyatt, ma davvero ha l'energia giovanile di un paese in ascesa.
Se vi va, provate a leggere la poesia ad alta voce. Poi potete sentire la canzone, se non l'avete già fatto prima di leggere.
Buon ascolto.
lunedì 11 aprile 2016
William Shakespeare - Sonnet 18
Il sonetto XVIII di Shakespeare ("Shall I compare thee to a summer's day?"), secondo me, è una delle prime poesie moderne della letteratura inglese. Dal momento che "moderno" di per sé non vuol dir niente, e che è un termine di cui si abusa, spiegherò in breve quel che voglio dire. Se uno prende un sonetto della stessa epoca, scritto da uno dei grandi sonettisti di fine Cinquecento, ci trova dentro una voce completamente diversa.
Loving in truth, and fain in verse my love to show,
That the dear she might take some pleasure of my pain,
Pleasure might cause her read, reading might make her know,
Knowledge might pity win, and pity grace obtain,
I sought fit words to paint the blackest face of woe:
Questa è la prima quartina, più un verso (altrimenti non si chiudeva il discorso), del primo sonetto di Astrophil and Stella di Philip Sidney - non l'ultimo arrivato. È un'ottima esercitazione di petrarchismo - l'amore infelice che si traduce in versi composti e armoniosi. Se però confrontiamo questi cinque versi con la prima quartina di Shakespeare, è come fare un balzo nell'iperspazio:
Shall I compare thee to a summers day?
Thou art more lovely and more temperate.
Rough winds do shake the darling buds of May,
And summer's lease hath all too short a date.
Perché Shakespeare suona diverso? Perché questo tizio - la persona poetica del sonetto - ci sembra di conoscerlo attraverso il testo, mentre l'altro dava l'impressione di ripetere, un po' stancamente, un modello creato altrove?
Non c'è una singola risposta a questa domanda - ma per ora proverò a darne due, rapidissime. 1) la persona poetica di Shakespeare è per l'appunto una maschera, un personaggio. Ce lo immaginiamo perché non ripete frasi sentite da altri (anche se Sidney, nel tardo Cinquecento inglese, credo suonasse molto più nuovo rispetto a ora), ma parla a modo suo, a partire da quella domanda retorica iniziale che ce lo fa visualizzare meditabondo ("aspetta un po', a cosa potrei paragonarti?"). 2. Il sonetto dice cose strane - il che, di nuovo, ci fa tornare al punto 1, alla creazione di un personaggio dotato di vita, lingua e modi propri. Iniziare con una domanda retorica è strano. Usare una metafora presa dal campo semantico della locazione immobiliare ("summer's lease") è strano, per gli anni Novanta del Cinquecento (la pubblicazione è del 1609, ma la composizione è precedente). Dire che la persona di cui si parla crescerà "verso il tempo", o "fino a diventare il tempo" (il verso 12: "When in eternal lines to time thou grow'st"), è molto strano. Scrivere un sonetto per celebrare la bellezza di un uomo - perché di questo si parla nel sonetto XVIII - è stranissimo, sul finire del sedicesimo secolo.
Per questo, le traduzioni "filologiche" e "poetiche" di cui abbonda la nostra letteratura mi hanno sempre lasciato un po' insoddisfatto. Ecco qua l'originale, intero, con una traduzione "teatrale" fatta da me. Le rime/assonanze/consonanze non le ho cercate a forza, a parte il distico finale (lo schema del sonetto inglese è ABBA CDDC EFFE GG).
Shall I compare thee to a summer's day?
Thou art more lovely and more temperate.
Rough winds do shake the darling buds of May,
And summer's lease hath all too short a date.
Sometime too hot the eye of heaven shines,
And often is his gold complexion dimmed,
And every fair from fair sometime declines,
By chance or nature's changing course untrimmed;
But thy eternal summer shall not fade
Nor lose possession of that fair thou ow'st,
Nor shall death brag thou wander'st in his shade,
When in eternal lines to time thou grow'st.
So long as men can breathe or eyes can see,
So long lives this, and this gives life to thee.
Paragonarti a un giorno estivo?
Tu sei più dolce e temperato.
Il vento scuote i fiori, a maggio,
e l'affitto dell'estate scade presto.
A volte l'occhio del cielo è là che brilla,
spesso ha opaco, non dorato, il colorito;
tutte le cose belle dopo un po' lo sono meno,
per caso o per capriccio di natura;
ma la tua estate eterna non finisce
e non smarrisce mai la tua bellezza;
la morte non si vanterà di averti preso,
perché con questi versi eterni batti il tempo.
Finché gli uomini vedono e hanno fiato,
vive anche questo, e questo ti dà vita.
Mettere il sonetto in musica viene naturale - anche se i sonetti mancano di ritornello, e quindi ho isolato e ripetuto i primi due versi. A parte queste modifiche strutturali, bisogna trovare il ritmo e la melodia giusti, da tarda primavera o inizio estate. Dopodiché si tratta di seguire, pur modificandoli, gli accenti interni ai versi, che sono mutevoli e sempre interessanti. Sì, in teoria il sonetto è scritto nel verso principe della poesia inglese moderna, il pentametro giambico (ovvero cinque piedi di due sillabe, la prima non accentata e la seconda sì). In pratica, com'è normale se la poesia non è una filastrocca, già gli accenti del primo verso si dispongono in altra maniera. Non si legge quindi:
Shall Ì compàre thee tò a sùmmer's dày (ta-tà | ta-tà | ta-tà | ta-tà | ta-tà)
ma, fra accenti primari e secondari, qualcosa come:
Shàll Ì compàre thèe to a sùmmer's dày
e siccome nella frase musicale gli accenti si spostano, la canzone fa così:
Shall I compàre thèe to a sùmmer's dày
Buon ascolto.
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