domenica 5 giugno 2016
John Milton - Sonnet 19 (1652?)
When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent
To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"
I fondly ask. But patience, to prevent
That murmur, soon replies, "God doth not need
Either man's work or his own gifts; who best
Bear his mild yoke, they serve him best. His state
Is Kingly. Thousands at his bidding speed
And post o'er Land and Ocean without rest:
They also serve who only stand and wait."
Quando penso alla mia luce spenta
prima di mezza via, nel grande mondo oscuro,
e a quel Talento che nascosto è morte
in me inusato, pur se l'Anima tende
a servirci il mio Creatore, rendere
i conti in ordine, che non mi sgridi;
"Sudore diurno esige Dio, ma senza luce?"
chiedo, sciocco. Ma la pazienza trattiene
il borbottio e risponde: "A Dio non servono
la fatica dell'uomo e i propri doni; chi meglio
porta il suo lieve giogo, meglio serve. Egli
è Regale. Migliaia per lui percorrono
la Terra e l'Oceano senza sosta:
lo serve anche chi non parte e resta."
Un altro sonetto, d'accordo - come i due di Shakespeare, come la versione petrarchesca di Surrey. La forma breve ben si presta alla canzone folk-pop-rock, e il sonetto è quasi sempre breve, eufonico e ad effetto. Qui, tuttavia, siamo lontanissimi dalle pene d'amore stilizzate di Petrarca e dall'ironia colloquiale del Bardo. Il sonetto di Milton ha intanto uno schema rimico diverso, più intrecciato e meno facile alla lettura (uno schema parzialmente disatteso in traduzione, soprattutto con la shakespeariana consonanza finale). Non parla d'amore soddisfatto o disilluso, ma della frustrazione che il poeta prova di fronte alla cecità, e di come l'afflizione gli impedisca di servire il Creatore come vorrebbe. Ma soprattutto, mentre i sonetti di Petrarca, Surrey, Shakespeare e mille altri sono composizioni cortesi e composte, spesso argomentate per singoli versi ("Shall I compare thee to a summer's day?"), questa poesia si compone di due lunghi periodi, uno lungo sette versi e mezzo e l'altro sei e mezzo. La sintassi è complicata, tanto che in certi momenti non si capisce bene cosa stia dicendo la persona poetica, e bisogna arrivare in fondo al primo lunghissimo periodo per esserne sicuri. Come hanno detto critici molto più bravi di me, leggere Milton, qui come nel Paradise Lost, significa quasi sempre rivedere le proprie ipotesi di lettura frase per frase.
Una breve parafrasi serve a: 1) spiegare quanto è semplice, nella sostanza, quel che sta dicendo la persona poetica; 2) dimostrare che le parafrasi sono inutili. Pensando alla cecità che lo rende inabile al vero lavoro, al lavoro che gli servirebbe a non sprecare i talenti che gli ha dato il creatore, al poeta viene una rabbia tale che lo porta a fare una domanda stupida: ma come, Dio mi chiede di fare ogni giorno del lavoro, e mi toglie gli occhi? (versi 1-8). Ma la pazienza lo mette a tacere, ricordandogli che Dio non ha bisogno né della fatica dell'uomo né del frutto dei doni che lui stesso distribuisce, che ci sono già moltitudini che lo servono per terra e per mare, e che anche chi sta fermo e aspetta può essere un buon servitore (versi 8-14). La poesia, naturalmente, è tutt'altro, e molta della sua bellezza risiede nei suoi continui scarti di significato - e, per il lettore, di comprensione.
Se uno prende la prima quartina da sola, per esempio:
When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent
sembra che quella "Soul more bent" del quarto verso sia un'anima piegata dalle avversità, magari dalla cecità stessa. In realtà, come si scopre nel verso seguente, l'anima è più "incline" (bent) a servire il creatore con "quel talento" (that one Talent) che era stato lasciato a penzolare nel terzo verso:
To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"
La persona poetica sente di dover far fruttare il proprio talento - metterlo al servizio della rivoluzione puritana, per esempio, come Milton ha fatto fin dai primi anni Quaranta - per non incorrere nelle rampogne del Creatore che gli ha dato il talento perché ne facesse qualcosa. Nel sesto verso c'è quel verbo chide, sgridare, che sembra introdurre il discorso diretto seguente. "Dio esige (forse) il tuo lavoro di ogni giorno negandoti la luce?" verrebbe da tradurlo, pensando che sia Dio a porre la domanda, forse in modo sarcastico. Ma ancora una volta la sintassi ubriacante di Milton ci ha sbilanciato, e scopriamo che questa domanda la pone in realtà la persona poetica stessa - concludendo infine la frase principale a sette versi dall'inizio del periodo:
I fondly ask.
La domanda, nei sei versi e mezzo seguenti, viene smontata con argomenti calmi e imperiosi dalla pazienza del poeta stesso. E tuttavia, per come è fatto il sonetto, è quella domanda centrale che ci rimane in testa, e che ho deciso di mettere al centro della struttura della canzone: "Doth God exact day-labour, light denied?" Se letto in maniera lineare, il sonetto è un'auto-ingiunzione alla pazienza, a confidare nella saggezza divina. Milton il grande studioso e linguista, Milton il giovane poeta prodigio, Milton il polemista folgorante della Rivoluzione puritana, Milton che scriverà il più grande poema epico cristiano di tutti i tempi, si mette in scena come un Sansone impotente, impaziente, che si risolve infine ad aspettare istruzioni dall'alto. Ma la poesia non funziona come un pamphlet sul divorzio o sulla libertà di stampa. La poesia segue le sue regole, non permette di mentire, e in questo caso ci lascia l'impressione che la rabbia (fondly) sia più potente del ragionamento (Patience, to prevent).
Questa, perlomeno, è la mia lettura, e questa lettura sta alla base della canzone.
Buon ascolto.
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