venerdì 17 aprile 2020

Wilfred Owen, "Futility" (1918)




Posto qua sotto, con qualche piccola modifica, il testo di un mio intervento apparso per la prima volta su Poesia n. 305 del giugno 2015. Non ho molto da aggiungere, se non che Futility" appartiene sì alla terza fase della poesia in lingua inglese della prima guerra mondiale - quella della discesa agli inferi vista quasi con distacco - ma ricorda anche le poesie scritte da Hardy allo scoppio della guerra boera, e in particolare "Drummer Hodge" (1899). Hardy scriveva da casa, Owen manda dispacci in versi dal fronte: ma il soldato morto in Francia, non risvegliato dal sole e dal ricordo dalla semina, e il tamburino che riposava sotto "costellazioni dagli occhi strani" ("strange-eyed constellations") nell'emisfero australe si somigliano parecchio. Gli stili, certo, sono diversi: Hardy usa i suoi classici aggettivi negativi ("uncoffined") con il sentimentalismo di chi i sentimenti se li può permettere, mentre Owen si lascia giusto trascinare in una domanda retorica nella seconda strofa.

Avrei voluto musicare una poesia di Rosenberg - come si capisce dall'introduzione che segue, il mio preferito fra i poeti della prima guerra mondiale - ma non ne ho trovata nessuna che avesse la regolarità necessaria. "Futility" è the next best thing - una poesia composta, per lo più monosillabica, con una prima strofa emozionante proprio perché trattiene l'emozione (e quei deittici che dicono la differenza fra il poeta che scrive da casa e il poeta soldato: "Until this morning and this snow"). Nel musicarla ho cercato una forma armonica che fosse allo stesso tempo mobile e immobile - e quindi accordi ricorrenti, variazioni di colori con la stessa fondamentale - e ho pensato un po' a una canzone scritta da un tizio molto meno abile con le parole ma capace di esprimere in suoni lo stesso distacco doloroso: "All apologies" dei Nirvana. Anche questa, come quella, è in tonalità maggiore.

Mi sono permesso un inizio vocale e un finale un po' da chiesa. Spero di avere anch'io trattenuto il sentimento quanto basta. Ecco la poesia in inglese e in traduzione. Segue l'articolo del 2015.


Futility

Move him into the sun –
Gently its touch awoke him once,
At home, whispering of fields unsown.
Always it woke him, even in France,
Until this morning and this snow.
If anything might rouse him now
The kind old sun will know.

Think how it wakes the seeds –
Woke, once, the clays of a cold star.
Are limbs, so dear-achieved, are sides,
Full-nerved – still warm – too hard to stir?
Was it for this the clay grew tall?
– O what made fatuous sunbeams toil
to break earth’s sleep at all?


Futilità

Spostatelo al sole –
lo svegliava il suo tocco lieve
a casa, il sussurro della semina da fare,
e l’ha sempre svegliato anche in Francia,
fino a questa mattina e a questa neve.
Se qualcosa al mondo può svegliarlo
è il buon vecchio sole a saperlo.

Pensate a come sveglia i semi –
e in principio la creta di una fredda stella.
E il lento acquisto degli arti, i fianchi
innervati – ancora caldi – non li smuove?
Si è fatta alta per questo, la creta?
Perché si sono affaticati, i raggi fatui
a spezzare il sonno della terra?

***

Se non fosse che le poesie sono sempre troppo ampie o troppo irregolari per entrare negli schemi critici, i tre grandi poeti britannici della prima guerra mondiale sarebbero un perfetto specchio del conflitto che li ha uccisi – dei cambiamenti nel morale delle truppe e nella visione dei civili. Rupert Brooke è la partenza, il vago rapimento di un’azione ancora di là da venire. Le poesie di Wilfred Owen, sulle prime influenzate dall’estetismo patriottico di Brooke, finiscono per dire il rancore contro i comandanti e la pietà per i corpi fatti a pezzi. I versi di Isaac Rosenberg, infine, risuonano senza rabbia e con pietà distaccata da un deserto del dopo-bomba – anche se le bombe continuano a cadere, e il corpo di Rosenberg sparisce senza lasciare tracce la notte del primo aprile del 1918. Le ultime poesie di questo scrittore irregolare fanno pensare con quattro anni di anticipo alla desolazione post-bellica della Waste Land eliotiana.

Le poesie sono più complicate dello schema che vorrebbe contenerle – ma le poesie si possono leggere qui sotto, e lo schema è un buon punto di partenza. Rupert Brooke (1887-1915) è il primo dei tre poeti a morire – di infezione, nel corso di un trasferimento. I suoi famosi sonetti vengono pubblicati alla fine del 1914, ma non sono in molti a notarli. Dopo la morte, tuttavia, Brooke viene lodato da personalità di spicco come Winston Churchill, e una nuova raccolta delle sue opere (1914 and other Poems, giugno 1915) diventa tanto popolare che finirà per vendere trecentomila copie nel giro del decennio successivo. Le sue poesie, nella fase iniziale, influenzano tutti gli altri poeti di guerra britannici, con la significativa eccezione di Isaac Rosenberg. Il suo sonetto più patriottico, “The Soldier”, diventerà una delle poesie più antologizzate dell’intera tradizione britannica.

La popolarità di Brooke è presto spiegata, così come è facile capire perché i critici letterari gli abbiano voltato le spalle nel giro di un paio di decenni. Le sue poesie sono opera di un giovane benestante e istruito che ha un concetto romantico della vita, e soprattutto della morte. Brooke era già piuttosto noto come poeta e come studioso, e si può dire fosse il principale esponente di un gruppo di versificatori definiti “georgiani”. Questi scrittori usavano forme tradizionali e versi aggraziati per raccontare emozioni semplici e innocenti: Brooke trasferisce questi modi e questi sentimenti alla sua visione romantica della partenza per il fronte, e ne scaturiscono componimenti di grande bellezza incantatoria e dal senso molto vago, a tratti confuso. La grande avvenenza dello scrittore, la sua morte prematura quando il conflitto è ancora giovane, permettono ai politici e ai propagandisti di trasformarlo nel simbolo perfetto di un’Inghilterra giovane e desiderosa di coprirsi di gloria. Sul Times del 26 aprile 1914, Churchill scrive che la voce del poeta defunto “è più vera di qualsiasi altra voce, più elettrizzante, più capace di rendere giustizia alla nobiltà della nostra gioventù sotto le armi” – e in tutto il resto del necrologio, le lodi per il poeta si mescolano alla celebrazione del soldato caduto da giovane, e quindi caro agli dei (il fatto che Brooke non è morto al fronte viene deliberatamente lasciato in ombra).

La bellezza vaga e confusa dei versi di Brooke è particolarmente evidente nel sonetto “The Soldier”, che illustra anche i motivi per cui il sangue del giovane poeta-martire diventa subito il campione esemplare di tutto il “dolce vino rosso della gioventù” (da un’altra sua poesia) versato sui campi di Francia. Nei quattordici versi di “Il soldato”, la parola England viene reiterata quattro volte, e – insieme alle due ripetizioni dell’aggettivo English e al sostantivo home, che sta ancora per l’Inghilterra – serve a rendere familiare ciò che è altrimenti estraneo e minaccioso. Se muoio, dice la persona del poeta a un anonimo interlocutore, ricordati che “c’è un pezzo di prato straniero | che è per sempre Inghilterra”. Il mio corpo diventerà magari polvere, ma sarà polvere di “un corpo inglese [...] benedetto dai soli di casa”. Il ritmo ipnotico già dal primo verso (“If I should die, think only this of me”: un pentametro giambico perfetto), le allitterazioni, i parallelismi e le inversioni (“In that rich earth a richer dust concealed”) mettono in ombra l’ideologia del componimento, che non è solo patriottica ma anche apertamente xenofoba. La polvere inglese è “più ricca” della polvere straniera – non solo dei resti mortali dei nemici tedeschi, ma anche, secondo logica, di quelli degli alleati francesi, nonché dei compatrioti scozzesi, gallesi e irlandesi.

Nonostante i riferimenti alla “polvere” e al “corpo”, la morte cantata da Rupert Brooke non è reale disfacimento fisico, ma una sorta di deliquio e sperdimento post-romantico – in guerra, argomenta un altro sonetto, “niente turba la lunga pace ilare del cuore | se non lo strazio, e anche lo strazio ha fine; | e la Morte è l’amico e il nemico peggiore.” Le poesie di Brooke appartengono ai prodromi e al primissimo periodo del conflitto, e hanno senso – il senso vago di cui si è detto soprasoltanto fino alle grandi carneficine come quella della Somme. In questa prima fase, anche Wilfred Owen (1893-1918) scrive versi estetizzanti: ma dal 1917 in poi, e dopo l’incontro con Sigfried Sassoon (il più satirico dei poeti di guerra inglesi), il suo talento fiorisce a una velocità vertiginosa, tipica dei momenti di grave crisi. Nel 1963, leggendo i primi componimenti di Owen, Cecil Day Lewis si dirà “stupefatto dalla trasformazione improvvisa di un poeta molto minore in una figura molto più grande.”

La grandezza dell’Owen maturo sta nella sua capacità di alternare l’indignazione di Sassoon a una molto più grande capacità di compassione – e almeno a tratti, nel saper esprimere entrambi i sentimenti con una dolcezza musicale degna del suo amato Keats. "Dulce et Decorum Est", sempre presente in tutte le antologie della letteratura britannica, si apre sulla descrizione dei soldati sfiniti e calzati di sangue”, procede con la cronaca diretta di un attacco nemico (“Gas! Gas! Svelti, ragazzi”), culmina in una serie di versi “petrosi” e quasi impronunciabili sull’agonia di un commilitone (il sangue esce “ gargling from the froth-corrupted lungs, | Obscene as cancer, bitter as the cud | Of vile, incurable sores on innocent tongues”), e si conclude con un’invettiva diretta ai civili e ai politici lontani ed incuranti, che continuano a raccontare ai giovani assetati di gloria la "vecchia menzogna" a cui allude il titolo ("Dulce et decorum est | pro patria mori"). La nota polemica non stona perché arriva alla fine, dopo una sequela di versi narrativi strazianti ma realistici. La marcia sfiancante dei militi “piegati in due come vecchi mendicanti”, la fine miseranda del “qualcuno” che il poeta vede “annegare” nel gas, i sogni in cui quel qualcuno torna a visitare “la vista inerme” dello scrittore: tutti questi dettagli materiali e psicologici trasformano un generico sentimento anti-bellico nel grido articolato e rabbioso di un individuo in un luogo specifico.

Anche se poesie come “Dulce et Decorum Est” sprigionano una potenza raramente eguagliata nella storia della letteratura in lingua inglese, è forse in altri versi più pacati e raccolti che la scrittura di Owen dimostra tutta la sua impressionante, velocissima maturazione. La prima strofa di “Futility” è un esempio di come si possa salutare in modo sentito e personale un morto qualunque, identificato soltanto come uomo proveniente dalla campagna inglese. Già il primo verso (“Move him into the sun”, “Spostatelo al sole”), con la sua semplicità anglosassone monosillabica e il suo compassionevole imperativo, dice tutta la pena meglio che se la pena venisse detta. Dopo questo gentile ordine iniziale, la persona del poeta – Owen era ufficiale dell’esercito britannico – racconta di come il lieve tocco del sole usasse svegliare il soldato quando non era altro che un uomo dei campi, e persino in Francia, sotto le armi, “fino a questa mattina e a questa neve”. Solo a fine strofa sappiamo per certo che il soldato è morto – perché “Se qualcosa al mondo può svegliarlo | è il buon vecchio sole a saperlo”. Senza bisogno di fare ricorso a una simbologia esplicita, Owen raffigura il sole come un antico dio benigno ma tutto sommato impotente – la seconda strofa ci dice che è capace di creare la vita, ma non di ridarla. Il ritmo è lento e composto: cinque versi con quattro accenti sono incorniciati fra due versi di tre. Le rime imperfette e visive (sun | once | France | now | know) legano i versi ma impediscono alla strofa di correre. Gli unici giudizi di valore sono positivi e si riferiscono al sole “buono”, dal tocco “lieve” che è come un “sussurro”.

Questa equanimità del racconto e del verso anima un’altra delle grandi poesie di Wilfred Owen, “Strange Meeting”. Qui la tecnica della rima imperfetta si applica alla misura del distico – come se Owen fosse un Pope senza illuminismo, un poeta raziocinante perso nella follia irrazionale della guerra, che si rifiuta perciò di chiudere i suoi ragionamenti nella saldatura precisa della rima baciata. Sfuggito chissà come alla furia della battaglia, il poeta si trova in un “profondo cupo tunnel” che si rivela presto come l’inferno vero e proprio, dove risuonano i “gemiti di dormienti appesantiti, | bloccati dalla morte o dai pensieri”. Non è un Averno qualunque: è l’inferno dei combattenti in trincea, che dormono senza mai riposare. Qui Owen-Enea-Dante incontra un soldato morto, che alla fine si identifica come “il nemico che hai ammazzato, amico”. La poesia si chiude su una strana nota di fratellanza ultraterrena, oltre la pietà, che finisce per abbracciare anche il nemico in un comune senso di futilità (“Mi son difeso, ma con mani fredde e svogliate. | Ora dormiamo...”). Il paragone con Enea e Dante è inevitabile, e allo stesso tempo mette in luce una differenza fondamentale: mentre Enea e Dante sono visitatori dal mondo di sopra, Owen è un visitatore dagli inferi, anche se il personaggio del poeta è vivo e quello del soldato tedesco (che si identificava come tale in una prima versione) è morto. In più, mentre Dante incontra semplicemente anime morte ai suoi tempi o prima, Owen si imbatte in un’anima che lui stesso ha spedito all’inferno. La Grande Guerra è la prima in cui i poeti combattono in grande numero, e scrivono non nello studiolo di casa ma al fronte – non è letteratura di guerra quella che producono, ma letteratura dalla guerra, quasi in presa diretta. I piccoli ufficiali, nelle grandi battaglie, vengono mandati a morire alla testa dei loro plotoni nella terra di nessuno, dopo lunghi bombardamenti che dovrebbero indebolire le posizioni avversarie. Il primo luglio del 1916, giorno d’inizio della battaglia della Somme, muoiono o vengono feriti 57.000 dei 120.000 soldati agli ordini del Generale Haig.

In queste condizioni, è perciò ancora più straordinario che un soldato semplice senza alcun privilegio come Isaac Rosenberg (1890-1918) sia riuscito a scrivere poesie straordinarie, e splendidamente distaccate, come “Break of Day in the Trenches”. Figlio di ebrei russi emigrati a Londra nel 1897, Rosenberg allo scoppio della guerra è in Sudafrica. Probabilmente è la povertà a
vincere il suo passivo pacifismo. È artista visivo e poeta già prima della guerra, indeciso fra le due arti e molto più influenzato da Blake che dal Keats di Owen e Brooke. Ma se i suoi componimenti prebellici sono più interessanti per la tradizione a cui si ispirano che per il loro valore intrinseco, l’arrivo al fronte, ancora una volta, sembra portare una forza e una sicurezza di tono quasi immediate. I primi due versi di “Break of Day” risuonano con la concisione ponderosa di un classico: “The darkness crumbles away – | It is the same old druid Time as ever” (“Il buio si sbriciola – | è il vecchio tempo druido di sempre”). Tutto è immediato e credibile, eppure anche fuori dal tempo, ancestrale, mitologico: è la descrizione di un qui e ora terribile che però, nello sbriciolarsi portentoso del buio, nel procedere sempre uguale dei millenni (il tempo “druido”), presuppone una dimensione altra che rende tutto meno reale, meno importante. In breve, il punto di vista passa dalla persona del poeta al ratto disturbato dalla presenza umana: un animale sardonico, cosmopolita, indifferente ma “vivo”, che forse sorride di scherno alla vista degli “arti alteri da atleti | meno adatti di te alla vita”. Mentre in Owen la constatazione dell’orrore porta alla pietà o alla rabbia, qui uno sguardo inflessibile e quasi sereno si posa sui corpi dilaniati come sulla poca natura scampata alle bombe. Il personaggio del poeta, con un gesto che potrebbe sembrare uno sberleffo o una sfida in poesie meno “classiche”, si adorna di uno di quei papaveri che crescono anche dai corpi dei soldati dilaniati – e il fiore vivo è meglio dei fiori dei morti. “I fiori cresciuti nelle vene degli uomini”, dice Rosenberg, “si piegano inesorabili. | Ma quello che porto all’orecchio | è salvo, giusto un po’ impolverato”.

I sentimenti ci sono, nelle poesie di Rosenberg, ma sembrano trattenuti – come se il poeta pensasse che qualsiasi reazione emotiva è insufficiente, e quindi sbagliata. In “Dead Man’s Dump”, una scena che porterebbe Sassoon a infiammarsi di sacra indignazione – per l’ottusità dei comandi e l’indifferenza dei civili – riceve un trattamento clinico. I versi brevi e per lo più staccati, le parole rare che si inframezzano a quelle di registro medio, fanno pensare ancora una volta a una voce antica quanto il mondo, che tutto ha visto e di nulla si impressiona. Le domande che interrompono la narrazione non sono quelle retoriche di Owen, ma veri interrogativi senza risposta (“Quali fantasie spietate gli hanno acceso l’anima scura? | Terra! Sono entrati in te? | Da qualche parte saranno andati, | e buttato sulla tua schiena dura | c’è il sacco della loro anima | vuoto di essenze divine e ancestrali. | Chi li ha scagliati fuori? Chi ha scagliato?”). Anche qui c’è l’agonia dei singoli soldati, raccontata con crudo realismo (“Le cervella di un uomo spiaccicate | sulla faccia di un barelliere”) ma senza il linguaggio espressionistico di “Dulce et Decorum Est”. Il poeta osserva da distanza ravvicinata, ma senza partecipare del tutto, almeno quando scrive: come quella del barelliere, forse, anche la sua anima “è andata troppo a fondo | per la tenerezza umana”.

Questa impressione è confermata dall’ultima breve poesia di Rosenberg, in cui si ritrovano tutti i temi e gli stilemi visti sopra – la concisione staccata, la dizione media impreziosita da qualche termine raro, la lontananza “mitica” dalla realtà della guerra. I giorni di “Through These Pale Cold Days” sono appunto freddi e pallidi, ma lasciano intravedere in controluce un fuoco vecchio di tremila anni e “giorni biondi e quieti”. I campi dell’Europa sepolta nelle trincee non spariscono, ma contengono simultaneamente, nell’immaginario dei soldati di religione ebraica, le “piscine di Hebron” e il “pendio estivo del Libano”. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un T.S. Eliot ebreo – ed è un’impressione paradossale, visti l’antisemitismo e il gelido puritanesimo del grande americano anglicizzato. La domanda che sorge inevitabile, invece, riguarda ciò che Rosenberg – più ancora di Brooke e Owen – avrebbe potuto fare, se il calderone che l’ha forgiato così in fretta l’avesse risparmiato.

martedì 10 luglio 2018

Gerald Manley Hopkins, "Pied Beauty" (fra il 1876 e il 1889)


A dire la verità, avrei voluto musicare "The Windhover", che fra le poesie di Gerald Manley Hopkins è la più famosa, la più misteriosa, la più difficile da tradurre - e, ahimé, la più impossibile da cantare. Non che sia misteriosa nel senso che non si capisce di cosa parla: da quel punto di vista è facile. "The Windhover" parla di Cristo, o di Dio, o dello Spirito Santo, che la persona del poeta vede volare la mattina, "servo del mattino", "delfino del regno della luce". Ma il "di cosa parla" è sopravvalutato, nella lettura comune delle poesie: Petrarca parla di Laura, Leopardi parla della speranza del sabato tradita dalla noia della domenica. Una volta che ce l'hanno spiegato stiamo tranquilli, abbiamo il nostro vasetto di conoscenza letteraria in conserva: quello che non abbiamo capito è perché dovremmo leggere Petrarca, Leopardi, Gerald Manley Hopkins.

Non ho una risposta generale a queste domande, ma posso raccontare qualcosa sulla mia lettura di Hopkins. Intorno al 2013 sono a Londra, come quasi tutte le estati, per studiare alla British Library e fare un po' di vacanza. Non ricordo perché, ma so che sono agitato, che non riesco a calmare il respiro, e il pomeriggio di Soho non aiuta: caldo, poca aria, molto rumore, lavori a Oxford Circus. Le librerie di Charing Cross Road hanno quasi tutte chiuso a favore di centri chiropratici cinesi e negozi di ciarpame, ma qualcuna resiste alla civiltà digitale. La mia tirchieria mi attira verso il banchetto dei libri a una sterlina - manuali di cobol, romanzi sconosciuti, e i Selected Poems di Hopkins. Apro il libro, e vado a cercare "The Windhover", che conosco già perché l'ho letta ai tempi dell'Università. La leggo. Mi mette a posto il respiro. La rileggo. Porto via il volumetto, che mi accompagnerà al residence e in Italia, ed è ancora nella mia libreria:

I caught this morning morning's minion, king-
   dom of daylight's dauphin, dapple-dawn-drawn Falcon, in his riding

Ho colto al mattino del mattino il servo, del re-
   ame del dì il delfino, Falco maculato albatrainato, in volo

In questi due versi c'è tutta la perfezione delle poesie migliori di Gerald Manley Hopkins: sai "di cosa parla", più o meno - è una poesia religiosa - ma non capisci bene cosa sta dicendo. Se ti lasci cullare dal ritmo martellante (basti guardare quel "dapple-dawn-drawn": tre parole, tre sillabe e tre accenti forti), dall'allitterazione insistita ("dom of daylight's dauphin, dapple-dawn"), dalle ripetizioni allitteranti ("morning morning's minion"), finisci per renderti conto che non importa tanto il cosa quanto il come. Hopkins ci sta facendo il resoconto di una visione mistica, e la sostanza non è tanto in quello che ci mostra, quanto in quello che ci fa sentire. Come capita spesso nella letteratura religiosa, "The Windhover" è una poesia molto sensuale.

Hopkins lo sapeva, di essere un poeta sensuale. Nato nel 1844 a Stratford da genitori borghesi e anglicani, Gerald studia a Oxford,  e nel 1866 si converte al cattolicesimo. Nel 1868 decide di diventare un gesuita, e immediatamente brucia tutte le poesie scritte fino a quel momento. Naturalmente si rimette poi a scrivere, sempre tormentandosi per la superbia implicita nell'atto dello scrivere, e forse per il piacere fisico che gli dà scrivere quei versi, dirseli a mezza voce allo scrittoio. Muore di tifo nel 1889, praticamente sconosciuto. Le sue poesie verranno pubblicate in volume solo nel 1918, quando incontreranno il gusto di T.S. Eliot e di tutta una generazione ormai abituata al frammentario, all'allusione e al salto logico.

Io ho pena per Hopkins, lo ammiro e lo ringrazio, perché mi ha messo a posto quando ero in disordine. Ho provato a musicare "The Windhover", ma era troppo, per la struttura semirigida di una canzone pop. Perciò mi sono dovuto accontentare di "Pied Beauty", che si limita ad affermare quello che "The Windhover" è, o fa, coi versi: una celebrazione della bellezza variopinta e maculata della natura, fatta da un grande poeta non al massimo delle forma. Una poesia che si legge come un manifesto - tanto è vero che negli anni dell'università l'avevo stampata e attaccata a un muro di camera mia, al posto di Jim Morrison o di Che Guevara.

E a dire il vero, a rileggerla e a cantarla, mi rendo conto che non è un capolavoro ma è una grande poesia, e che siamo a miglia di distanza dalla rubrica "Frutto di un progetto" dei testimoni di Geova. Io, di certo, non sarei mai capace di scrivere una "Pied Beauty", perlomeno senza l'aiuto della musica. Buona lettura, e buon ascolto.


Glory be to God for dappled things -
   For skies of couple-colour as a brinded cow;
      For rose-moles all in stipple upon trout that swim;
Fresh-firecoal chestnut-falls; finches' wings;
   Landscape plotted and pieced - fold, fallow, and plough;
      And áll trádes, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;
   Whatever is fickle, freckled (who knows how?)
      With swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;
He fathers-forth whose beauty is past change:
                                Praise him.


Gloria a Dio per le cose screziate -
   i cieli grigioarancio come pezze di mucche;
      i nei rosa puntinati sulle trote;
cascate di carbone di castagne; ali di fringuelli;
   terra a righe tratteggiata - ovile, maggese, aratro;
      e tutti i mestieri, arnesi attrezzi armeggio.

Per quel che è opposto, strano, singolare;
   pieno di svolte, di lentiggini (chissà come?)
      e svelto, lento; dolce, aspro; sfolgorante, spento;
Genera il genitore, bello al di là del mutamento:
                               Gloria.

giovedì 28 settembre 2017

Christina Rossetti, "Song" (1848)

Sulla lingua e sulla letteratura inglese ho una riserva inesauribile di teorie - purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, del tutto impossibili da provare, e quindi non riferibili in un saggio o in una monografia accademica. Potrei parlarne al bar, ma nei bar intorno all'università si parla di fondi ministeriali e di calcio. Questo blog, d'altro canto, è perfetto: niente bibliografia, niente abstract, e una decina scarsa di lettori.

Ecco la teoria con cui voglio aprire questa introduzione a una poesia di Christina Rossetti: ci vogliono almeno cento anni di attività letteraria, in un certo genere o settore, per produrre un capolavoro, una grande scrittrice o un grande scrittore. Un secolo di romanzi (moltissimi scritti da donne) produce Jane Austen, e poi Charles Dickens e George Eliot (alias Marian Evans). Un secolo di teatro popolare e di poesia produce William Shakespeare, e poi John Donne, Milton e gli altri. Christina Rossetti, quindi - critiche letterarie femministe, smettete di leggere QUI - non è una grande poetessa, ma non per colpa sua: scrive in una tradizione che ancora non è matura.

Ora, la teoria sulla tradizione che produce grandi scrittrici e scrittori, e non viceversa, non è mia, ma di T.S. Eliot (Tradition and the Individual Talent, 1919) - forse il più grande produttore di teorie non provabili della storia. Quello che ci aggiungo io, e che non saprei ben spiegare sul piano storico-letterario ma penso lo stesso sia vero, è che in certi periodi questa cosa vale anche per le divisioni di genere. Ovvero: quando scrive Christina Rossetti, dagli anni Quaranta dell'Ottocento in poi, le isole britanniche hanno già almeno trecento anni di attività poetica alle spalle. Ma questa attività poetica era quasi tutta maschile, e una donna che voglia scrivere, come Christina, ha come modelli solo Shakespeare Donne Herbert Milton Dryden Pope Keats eccetera - e nel caso della signorina Rossetti, mettiamoci anche Dante, così amato da suo padre che suo fratello (Dante Gabriel) ne porta il nome. Non ci sono, insomma, modelli di come far parlare in poesia una voce femminile - o comunque ce ne sono pochi, e il punto di vista autoriale è sempre maschile. La Rossetti ed Elizabeth Barret Browning, insomma, sono quelle che aprono la strada: un centinaio di anni dopo, ecco sbucare fuori Sylvia Plath (che è americana, il che mi fa pensare che se allargo la visione al di là dell'Atlantico non so dove infilare quel fenomeno della Dickinson: ma insomma, non si possono infilare tutti i calzini nello stesso cassetto).

Certo, il fatto che la Rossetti non scriva grandi poesie si potrebbe leggere anche come conseguenza dello scarso numero di poetesse pubblicate o della sua vita appartata - ma alla fine la questione non cambierebbe poi tanto, e riuscirei a dimostrare che la penuria di poetesse e la vita appartata di Christina rientrano nel mio grande disegno teorico. Ad ogni modo, a proposito della vita appartata: Christina, figlia di un patriota italiano in esilio, dopo un'infanzia vivace un po' decide di, un po' è costretta a murarsi viva in casa. Rifiuta vari matrimoni e si rifugia nel suo Anglo-Cattolicesimo piuttosto intransigente (tanto che rifiuta di sposare un pre-raffaellita perché si è fatto cattolico - l'Anglo-Cattolicesimo fa parte della Chiesa Anglicana). Le sue poesie, influenzate da Dante (dicono i critici) ma soprattutto da Keats (dicono i critici, e anch'io), sono un misto un po' inquietante di morbosità, religione e sensualità deviata. Molta della sensualità è nel suono e nel movimento dei versi, di solito brevi, spesso uniti da rime irregolari. Quella che segue è una delle poesie più belle, più musicali, e tutto sommato meno inquietanti.

When I am dead, my dearest,
   Sing no sad songs for me;
Plant thou no roses at my head,
   Nor shady cypress tree:
Be the green grass above me
   With showers and dewdrops wet;
And if thou wilt, remember,
   And if thou wilt, forget.

I shall not see the shadows,
   I shall not see the rain;
I shall not hear the nightingale
   Sing on, as if in pain:
And dreaming through the twilight
   That doth not rise nor set,
Haply I may remember,
   and haply may forget.

Canzone

Quando son morta, caro
   niente canzoni tristi;
non voglio piante sulla testa,
   né l'ombra dei cipressi:
bastano l'erba verde
   la pioggia e la rugiada
E se ti va ricordami,
   se non ti va dimentica.

Non vedrò più le ombre,
   non vedrò più la pioggia;
non sentirò l'usignolo
   col suo dolore in gola:
sognando nel crepuscolo
   che non sorge e non tramonta,
magari ricordo tutto,
   magari tutto dimentico.

Ho scritto sopra che questa è una delle poesie migliori di Christina Rossetti - ma io, per temperamento, faccio fatica a non irritarmi anche di fronte alle sue poesie migliori. Ci sono tutte le caratteristiche del romanticismo poetico deteriore - Shelley quando non era in forma: il linguaggio pseudo-antico, pseudo-elisabettiano ("Plant thou", "wilt", "doth"), o comunque letterario ("Haply"); la fissazione sulla morte, anche questa ben poco reale e molto letteraria; la sensualità virata sulla natura ("with showers and dewdrops wet"); le inversioni ("dewdrops wet", per l'appunto). L'elenco è in ordine sparso, proprio per dare l'idea della mia irritazione.

Insomma, questa è una poesia a cui non ho mai prestato grande attenzione - ma poi ho provato a metterla in musica, e allora ho capito perché ci sono accademici che impazziscono per lo stile poetico di Christina Rossetti. Proprio quel verso che mi irrita per la sensualità deviata ("with showers and dewdrops wet") è in effetti una delle migliori rese sonore del sesso che io abbia mai sentito: tutte quelle s, quelle sc, quel "wet" finale che costringe la lingua a soffermarsi sulla t e a trasformarla quasi in una bagnatissima affricata. Peccato parli solo di pioggia e di rugiada. La musica delle vocali è spesso funambolica, come ci si accorge se si è costretti a cantarle: "Sing no sad songs for me". La Rossetti riesce a variare continuamente il ritmo di versi essenzialmente trimetri, e quindi molto brevi e facili alla cantilena. Insomma, come canzone questa poesia è effettivamente un capolavoro - il che non smentisce la mia teoria, perché se il suono è perfetto, la perfezione completa aspetta Sylvia Plath, Fleur Adcock, Anne Stevenson e le altre.

Però bisogna dire che se Yeats si fa fatica a musicarlo, se con la poesia delle origini si rischia la monotonia ritmica, qui la musica esce quasi spontanea dai versi: come si addice al tema, al suono e alla lingua anticata, ne viene fuori un prodotto tardo del revival folk britannico degli anni Sessanta. Buon ascolto.

giovedì 21 settembre 2017

W.B. Yeats, "The Second Coming" (1919)


In treno, il 20 settembre 2017. Mentre scrivo, e le rotaie del treno si muovono, sto pensando a Edward Thomas e W.B. Yeats. Thomas, morto sui campi della prima guerra mondiale, ha scritto su quegli stessi campi “Adlestrop”, una poesia ferroviaria che racconta in versi sospesi di un treno fermo in mezzo al nulla, nella campagna inglese, fuori dalla storia che ha ucciso il suo autore. Ho parlato di “Adlestrop” in questo stesso blog – trovate poesia, canzone e introduzione scorrendo verso il basso. Io non ho né motivo né giustificazione per scrivere niente del genere: il mio treno si è appena fermato a Cesena, e mi porta verso le Marche, non alla Somme. Ma mi rendo conto, ora che è ripartito, che non è un treno fermo, e lo si può solo raccontare in prosa bassa e movimentata: anche queste rotaie di provincia sono dentro alla storia.

Ieri Donald Trump, Presidente Americano di nomina ancora abbastanza fresca, ha minacciato di distruggere completamente la Corea del Nord in un discorso alle Nazioni Unite. Mentre ascoltavo il resoconto, e sentivo la manciata di parole del Presidente inserite nel servizio di BBC4, annuivo mentalmente: lo conosco questo stile, mi dicevo. Ho appena finito un articolo su due conversazioni telefoniche di Trump, e conosco i suoi tic. Voi potete fare quel che vi pare, ma poi decido io. Tutti tentano di fregarci, ma adesso basta. Voglio far questo. Voglio far quello. Io, io, io, io. Poi sono uscito dalla modalità linguistico-analitica, e ho avuto un po' di paura. Poi sono uscito dalla modalità topo in trappola/padre di famiglia, e ho pensato a una poesia di W.B. Yeats.

La poesia in questione è “The Second Coming”, ed è stata scritta subito dopo la Grande Guerra che ha inghiottito Edward Thomas, Wilfred Owen e quaranta milioni di persone. Ci sono poesie che danno consolazione nei tempi bui – come “Adlestrop” – e poesie che ci portano dentro alle tenebre e danno un nome alle cose che ci fanno paura. È il caso di “The Second Coming”. Eccola qua, in inglese e in italiano:

Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.

Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?

Il Secondo Avvento

Lui gira e rigira, il cerchio si allarga,
e il falco non sente il falconiere;
le cose si sfaldano; il centro non tiene;
la pura anarchia si scatena sul mondo,
una marea di sangue, e ovunque
annega la cerimonia dell'innocenza;
i migliori non sono convinti, i peggiori
sono pieni di forza e di passione.

Di certo è in arrivo una rivelazione;
di certo è in arrivo il Secondo Avvento.
Il Secondo Avvento! Basta dirlo
e una vasta immagine dallo Spiritus Mundi
mi turba la vista: nella sabbia di qualche deserto
un corpo di leone con testa di uomo,
sguardo vuoto e spietato come il sole,
muove le cosce lente, mentre intorno a lui
volteggiano ombre indignate di uccelli.
Ripiomba il buio: ma ora so
che venti secoli di sonno di sasso
sono andati in incubo per una culla,
e quale bestia rozza, ora che è il suo momento,
ciondola verso Betlemme per nascere?

Due premesse, prima di dare un'occhiata a come funziona: 1) odio tutti quei discorsi sulla poesia “quanto mai attuale”, eppure devo ammettere che è stato Trump, come rappresentante perfetto di questa epoca, a farmi tornare in mente certi versi; 2) odio anche tutti quei discorsi su “quel che ci vuol dire il poeta”, e tuttavia qui devo ammettere che i versi mi dicono qualcosa. Del resto, quando spiego ai miei studenti che il poeta non ci vuol dire niente, che se ci voleva dire qualcosa ce lo diceva, quello che intendo è che una poesia ben riuscita non è un saggio filosofico. Yeats, di suo, era antidemocratico, uno snob terribile, e quelli come me li avrebbe tenuti a lavorare nei campi: ma siccome era un poeta enorme, i suoi versi riusciti parlano anche a quelli come me.

“The Second Coming” sfrutta lo stesso repertorio di miti e leggende religiose dell'Esorcista. Se volessimo riassumere la poesia in una frase potremmo dire: i tempi sono maturi per la nascita della Bestia, dell'Anticristo (per questo ovvio motivo “Coming” va tradotto “Avvento”). Ma così come la trama dell'Esorcista, di per sé, non fa una gran paura, qui non è la parafrasi a impressionare il lettore: quel che conta è l'abilità demoniaca di Yeats nel costruire una poesia che procede come un discorso parlato, ma in pentametri giambici; va dritta al punto che vuole fare, ma fra rime, assonanze e consonanze talmente discrete che le si nota solo al secondo giro. I primi quattro versi, per esempio, ci introducono a un mondo in frantumi nella perfetta armonia di due distici (quasi) rimati. Laddove un poeta del Cinquecento ci avrebbe tenuto a ricordarci che scriveva in versi, Yeats varia gli accenti reali e spezza le frasi in modo tale da illuderci che anche noi, se volessimo, potremmo parlare e scrivere così:

Tùrning and tùrning in the wìdening gýre
The fàlcon cannot hèar the fàlconer;
Thìngs fall apàrt; the cèntre cannot hòld;
Mere ànarchy is lòosed upòn the wòrld,
[non badate al verso degli accenti, ma solo alla posizione]

Tre anni prima della Waste Land di T.S. Eliot, ma tre secoli abbondanti dopo Amleto, quello di Yeats è un mondo fuori centro, in cui gli innocenti annegano nel sangue e l'anarchia dilaga (notare la ripetizione di loosed, “scatenata”, e le altre parole che suggeriscono un inondazione: tide, drowned). E alla fine di questa terrificante, apocalittica strofa introduttiva, ecco i due versi a cui ho pensato mentre ascoltavo la voce di Trump, il suo accento, l'ordine monotono in cui gli accenti cadono nelle sue frasi: “The best lack all conviction, while the worst / Are full of passionate intensity”: ancora due pentametri giambici che non si assomigliano, per accenti, lunghezza delle parole, rima finale. Eppure, ancora una volta, legati alla perfezione, proprio perché sono diversi, perché il primo è più ritmato (sentiamo quattro-cinque accenti) e il secondo è più disteso (qui ne sento solo tre, al massimo quattro); e perché ancora una volta, rifiutandoci la chiusura della rima perfetta, Yeats ci ha dato una consonanza quasi invisibile (worst/intensity) e una consonanza grammaticale interna (best/worst). Il pensiero espresso da questo non-distico è perfetto, ma non di quella perfezione da baci perugina, o da post marmorei di facebook: il pensiero è perfetto perché suona perfetto, perché accenti, struttura del periodo e consonanze lo rendono convincente.

Il resto della poesia scorre via con ingannevole facilità, come gran parte delle grandi poesie dello Yeats maturo (se vi capita, leggete “Among School Children”). Rispetto ad altre, questa si basa in modo più coerente su ripetizioni di parole, costruzioni e aperture di verso, come a dare un sapore biblico all'argomento anticristiano (“Surely […] at hand; / Surely […] at hand”; “the Second Coming […] The Second Coming!”; “A shape […] A gaze”). Come la prima, anche la seconda e la terza strofa presentano infinite variazioni sul tema ritmico e rimico, e hanno la qualità di essere poesia abilissima che si legge come prosa. Il colpo di teatro, però, è nei due versi finali: la “bestia rozza” che viene ad annunciare o a portare la fine del mondo si trascina lenta (“slouches”) verso Betlemme, dove – pur essendo già in grado di muoversi – è destinata a nascere, perché la sua ora è finalmente arrivata. Il tono interrogativo, la terrificante rima interna fra “beast” e “last”, lo strisciante “slouches”, la sospensione del trisillabo “Betlehem” che precede le tre sillabe brevi di “to be born”: tutto ci parla della Bestia, perfino quel participio passato normalmente portatore di gioia, qui investito fin nel suono di un cupo orrore senza nome.

Mettere in musica una poesia del genere, che fa della variazione prosodica uno dei suoi motivi d'essere, non è per niente facile (basti sentire il verso "Troubles my sight: somewhere in sands of the desert"). Ne è venuto fuori un pop-rock nervoso, forse troppo allegro, fatto di almeno tre sezioni armoniche diverse. Per il finale, la sezione ritmica si ferma: la voce ripete i versi della Bestia su accordi non in scala, e le tracce rovesciate contribuiscono all'atmosfera di desolazione demoniaca.

martedì 6 settembre 2016

George Herbert, "The Altar" (1633)



Poesia concreta, poesia visiva, calligramma. Queste e altre definizioni, diverse per storia e non per uso, coprono tutta una serie di casi in cui la scrittura poetica, oltre che per essere letta, è fatta per essere guardata (o, meno spesso, sentita). Anche se si tende ad associare questo genere di componimento "doppio" al modernismo e alle neoavanguardie, l'idea di scrivere in forme mimetiche o simboliche è vecchia quanto la poesia. Molto prima di Apollinaire e Marinetti, a occupare uno dei posti d'onore nella storia di questo sottogenere è il prete anglicano George Herbert (1593-1633), che compose liriche in forma di altare e di ali di colomba.

Proveniente da una famiglia ricca, potente e ricca di talento artistico, Herbert non si conforma in niente all'idea romantica del poeta maledetto, divorziato dai buoni costumi e dalla società. Pur perseguitato dalla tisi che lo ucciderà a soli quarant'anni, Herbert fa in tempo a studiare a Cambridge, a diventare un pupillo di Giacomo I e a entrare in Parlamento, prima di diventare rettore della chiesa di Sant'Andrea a Salisbury. Mentre John Donne scrive poesie per richiamare l'attenzione di facoltosi mecenati, George Herbert, che non ne ha bisogno, raccoglie le sue solo poco prima della morte, per spedirle poi a Nicholas Ferrar, fondatore della comunità semimonastica di Little Gidding. Per questo motivo, tutte le opere di Herbert sono datate con l'anno di morte del poeta.

Little Gidding, per inciso, è il titolo di uno dei Four Quartets di T.S. Eliot. I Quartets sono il grande poema religioso del modernista americano anglicizzato, che fu fra i grandi rivalutatori della poesia metafisica (e quindi anche di Herbert), nonché il primo scrittore novecentesco capace di rendere la poesia religiosa nuovamente rispettabile. Io, che da italiano senzadio pensavo che la grande poesia potesse solo essere anticristiana, mi sono dovuto ricredere di fronte alla grandezza di questi due poeti dal temperamento affine. T.S. Eliot ho imparato ad apprezzarlo partendo dalla Waste Land e da "Prufrock". La mia maestra universitaria, letterata e cattolica, altro esempio di persona devota e intelligente, mi ha aiutato a capire perché valeva la pena di leggere Herbert.

A venticinque anni, quel che mi colpiva di poesie come "The Altar" era la loro compostezza, la forza quieta di versi capaci di placare il timore della morte - e credo fosse proprio questo, l'effetto che volevano sortire. Oggi invece mi colpisce la grande abilità di Herbert, meno spettacolare di Donne ma non per questo meno geniale. Tanto per cominciare, per creare un altare coi versi, il poeta deve prima diminuirne la lunghezza e poi aumentarla, e quindi accelerare per rallentare sul finale. A due pentametri giambici fanno seguito due tetrametri, poi otto versi di due accenti, e di nuovo due tetrametri e due pentametri. Pur costretto dalla gabbia che si è fabbricato da solo, Herbert riesce lo stesso a scrivere un componimento perfettamente organico:



Non solo "The Altar" è organico e scorrevole: è anche diviso in tre strofe/parti argomentative, che vanno a formare i tre pezzi dell'altare: nella prima, la persona poetica annuncia a Dio che gli ha costruito un altare fatto di parti create da Dio stesso; nella seconda, si spiega che la pietra di cui è fatto l'altare è il cuore di chi scrive - una pietra intagliata da Dio e fatta per celebrarNe il nome; e nella terza si dice il fine di questo altare simbolico, che è quello di continuare a cantare le lodi del signore quando la voce della persona poetica cesserà. Verrebbe da pensare a un corrispettivo devozionale del Sonetto 18 di Shakespeare (quello in cui il poeta dichiara di poter immortalare la bellezza del "fair youth" nei suoi versi), non fosse che il ragionamento di George Herbert è molto più cristianamente modesto.

Non c'è nulla di modesto invece nello stile, che è difficilissimo da tradurre. Chiunque abbia provato a scrivere una poesia o una canzone, in particolare, sa quanto è difficile comporre versi brevi a rima baciata che non scivolino immediatamente nel cliché linguistico. Per questo motivo, qui la mia versione è giocoforza più "di servizio" che in altre occasioni:

Ti dono un altare crepato, Signore,
cementato di lacrime, fatto col cuore;
   le parti le hai create tu stesso,
   mai toccate, prima di adesso.
            Un cuore solo
            È un materiale
            Che solo la tua
            potenza intaglia.
            Perciò ogni parte
            di un cuore arduo
            si unisce insieme
            a lodare il tuo nome.
   Così che quando dovrò tacere,
   saranno le pietre il mio cantore.
Fa che il tuo santo sacrificio sia il mio,
Per santificare questo altare come tuo.

Quanto alla versione cantata: compostezza, pochi strumenti, poche svolte melodiche. E per rispecchiare l'intenzione "concreta" dell'originale, l'uso di qualche suono mimetico che faccia pensare all'acqua del battesimo o al fiume della vita.

Buon ascolto.

venerdì 29 luglio 2016

Edward Lear, "How Pleasant to Know Mr. Lear" (1871)

A poesia bislacca, traduzione bislacca:

"How pleasant to know Mr. Lear!"
   Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
   But a few think him pleasant enough.

His mind is concrete and fastidious,
   His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
   His beard it resembles a wig.

He has ears, and two eyes, and ten fingers,
   Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
   But now he is one of the dumbs.

He sits in a beautiful parlor,
   With hundred of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
   But never gets tipsy at all.

He has many friends, lay men and clerical,
   Old Foss is the name of his cat;
His body is perfectly spherical,
   He weareth a runcible hat.

When he walks in waterproof white,
   The children run after him so!
Calling out, "He's come out in his night-
   Gown, that crazy old Englishman, oh!"

He weeps by the side of the ocean,
   He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
   And chocolate shrimps from the mill.

He reads, but he cannot speak, Spanish,
   He cannot abide ginger beer;
Ere the days of his pilgrimage vanish,
   How pleasant to know Mr. Lear!


"Che piacere conoscerlo, Lear!"
   Ha scritto dei gran volumoni!
Chi pensa sia strano e cattivo,
   chi dice che in fondo è un brav'uomo.

Ha la testa concreta e precisa,
   il naso che lascia di stucco,
il viso più o meno mostruoso,
   la barba a mo' di parrucca.

Di dita, si dice, ne ha dieci,
   contando anche quelle più grosse;
una volta faceva dei berci,
   ma ormai se non canta è lo stesso.

Si stravacca in un gran bel salotto,
   sui muri ha un sacco di libri;
passa il giorno a bere chinotto
   ma niente, ogni sera è più sobrio.

Laici e no, è pieno di amici,
   e ha un gatto, il buon vecchio Foss;
tondo come una ruota di bici,
   in testa ha un cappello un po' floscio.

Quando passa vestito di bianco,
   i bambini gli corrono dietro!
"Guardalo, l'inglese, è anco-
   ra in pigiama, quel vecchio matto!"

Lui piange in riva all'oceano,
   poi piange sulla collina;
si compra crêpe e lozioni,
   e gamberetti alla spina.

Non parla ma legge spagnolo,
   non può soffrire la birra:
i giorni ormai passano al volo,
   ma è bello conoscerlo, Lear.

Edward Lear (1812-1888) è uno dei personaggi più bislacchi della storia della letteratura inglese. Ennesimo figlio di un agente di cambio caduto in disgrazia, cresciuto più da una sorella maggiore che dalla madre morta presto, Lear era illustratore e pittore di professione. I volumes of stuff a cui si riferisce la poesia, più che volumi letterari, sono i suoi resoconti di viaggio illustrati. Dopo i trent'anni, Lear era dovuto emigrare al sud per via dell'asma e della bronchite, e questi libri di viaggio, insieme ai suoi numerosissimi paesaggi, erano il suo modo di mantenersi (con grande fatica, come attestano le lamentazioni e le annotazioni da partita doppia di molte sue lettere).

Ma non è per i quadri e per le illustrazioni che ricordiamo Lear. Nel 1845, quest'uomo grasso, goffo, epilettico e asmatico, omosessuale non dichiarato (ovviamente) nel bel mezzo dell'Età Vittoriana, pubblica un libretto di rime per bambini che di fatto rappresenta l'inizio della poesia nonsense moderna. La sua forma preferita è il limerick - un breve componimento basato su un toponimo. Di questa forma, Lear dà un'interpretazione del tutto personale: in parte perché ripete il nome di città nel verso finale, rinunciando così a creare una rima significativa e chiudendo i versi con un effetto di bathos; ma soprattutto perché i suoi limerick sono pieni di gente bizzarra e solitaria, impegnata in attività bizzarre e solitarie, e che a volte finisce per essere accoppata da altra gente, senza apparente motivo. Anche in questo caso, le illustrazioni appena abbozzate e un po' fumettistiche sono ovviamente opera dello stesso Lear:
[C'era una volta un signore di Morven / abituato a danzare coi corvi; / la gente gli disse: / "Son solo idee fisse!" / E fece a pezzetti quel tizio di Morven.]

Lear scrive poi dei poemetti più lunghi in cui vari animali, e altre strane creature, si sposano, o se ne vanno per mare, e qualunque cosa facciano piangono spesso, anche qui senza apparente motivo. E pur se le lacrime non si riesce a prenderle del tutto sul serio, e gli accoppamenti fanno pensare a Tom e Jerry più che ai penny dreadfuls, è difficile non pensare che qualcosa delle depressioni di Edward Lear, del suo senso infantile di abbandono, della difficoltà del doversi mantenere lontano da casa con la propria arte, del tenersi per sé l'amore che non può dire il proprio nome, vada in qualche modo a turbare la perfetta quiete giocosa del mondo del nonsense.

La riprova ce la dà "How pleasant to know Mr. Lear!" Il poeta si presenta come un personaggio caricaturale, grasso, nasuto, barbuto e bizzarro. I versi saltellanti, per lo più di 8 o nove sillabe e organizzati in piedi trisillabi, fanno pensare a una filastrocca, non certo a una lirica romantica. La ricerca della rima buffa o storta è evidente: l'inglesissimo parlor viene accoppiato all'italiano marsala (Lear finirà i suoi giorni a Sanremo), oh fa rima con so, la camicia da notte della persona poetica viene strappata in due dall'inarcatura (night- / Gown). Tutto ridicolo, si direbbe: ma poi arriva una quartina in cui "Lear" è inseguito dai bambini urlanti, e a ruota un'altra in cui lo ritroviamo che piange sulle rive dell'oceano e in cima a una collina. E a quel punto, se ritorniamo al primo verso della poesia, ci rendiamo conto che "How pleasant to know Mr. Lear" è per l'appunto fra virgolette, come se lo dicesse qualcun altro, come se - alla luce di quanto segue - non sia poi così scontato che sia un gran piacere, per la gente che lo guarda e lo giudica da lontano, conoscere Mr. Lear.

E invece il punto è proprio questo: Lear non è un grande poeta, ma lo leggiamo perché abbiamo voglia di conoscere "Lear" - perché c'è qualcosa di strano nelle sue poesie, qualcosa di personale, un eccesso di sentimento che guasta la purezza del nonsense e allo stesso tempo gli dà una vita che non si trova, ad esempio, nelle costruzioni perfette e glaciali di Lewis Carroll.

Come fare a dare un'idea di tutto questo in musica? Trasformando la poesia in una canzone di pop-folk-rock leggero e arioso, con una linea di canto che a tratti si inarca e sembra sul punto di rompersi. Con una piccola intro/outro di chitarra sentimentale, e allo stesso tempo un po' disarmonica. Fra le altre cose, Lear suonava diversi strumenti, chitarra compresa - io me lo immagino un po' così, malinconico e semistonato, e son sicuro che me l'immagino male.

Buon ascolto.

domenica 3 luglio 2016

John Donne, Break of day (pubbl. 1633)



"Break of day" è una delle poesie più ingegnose della letteratura inglese. Eccola qua:

Break of day

'Tis true, 'tis day; what though it be?
O wilt thou therefore rise from me?
Why should we rise because 'tis light?
Did we lie down because 'twas night?
Love, which in spite of darkness brought us hither,
should in despite of light keep us together.

Light hath no tongue, but is all eye;
If it could speak as well as spy,
This were the worst that it could say,
That being well, I fain would stay,
And that I loved my heart and honor so
That I would not from him, that had them, go.

Must business thee from hence remove?
O, that's the worst disease of love.
The poor, the foul, the false, love can
Admit, but not the busied man.
He which hath business, and makes love, doth do
Such wrong, as when a married man doth woo.

Si leva il giorno

Vero, è giorno: e allora, poi?
Perché dovremmo alzarci noi?
Solo perché non è più notte?
Per la notte si era a letto?
L'amore che con il buio ci ha sorpresi
con la luce deve tenerci presi.

Non ha lingua la luce, solo occhi;
se sapesse anche parlare, oltre che
vedere, direbbe questo:
che stavo bene e sono rimasto,
e avendo a cuore il mio cuore e l'onore
chi li aveva non ho voluto lasciare.

Hai da fare, dici, devi andare?
È il peggior male dell'amore.
I poveri, i brutti, i falsi senz'altro
lo accolgono, non l'uomo occupato.
Chi ha da fare e fa l'amore fa peggio
dell'uomo sposato che un'altra corteggia.

Questa volta la traduzione dev'essere abile, rimata, piena di trucchi e sorprese, per stare dietro alle capacità pirotecniche del poeta. John Donne (1572-1631), poeta londinese, prelato protestante di famiglia cattolica, è uno dei tanti motivi per cui conviene studiare la letteratura inglese. Quando ero studente, il primo poeta che mi ha preso è stato T.S. Eliot - a vent'anni, quando sei convinto di essere molto di più di quello che sei, quando hai le spese pagate ma ti vuoi immaginare unico sopravvissuto in un deserto di anime, Prufrock (1917) e la Waste Land (1922) hanno un fascino pressoché irresistibile. Bene, subito dopo il giovane vecchio che conosceva Ezra Pound e la Woolf è arrivato John Donne - uno che era morto trecentocinquant'anni prima. Eppure, un po' come capita con i sonetti di Shakespeare, nelle sue poesie si entrava senza bisogno di un'introduzione o di una singola nota al margine.

Il perché, a distanza di più di vent'anni, mi è chiarissimo. A noi - eravamo due o tre a scambiarci citazioni, sentendoci grandi intellettuali - non interessavano le ultime poesie di Donne, cristiane e luttuose. Quello che ci affascinava di lui era la capacità di riassumere in pochi versi la cosa che ci interessava più di tutte - più della letteratura o di ogni altra arte: le ragazze, la conquista, il corteggiamento. A me in particolare, confusamente, sembrava che se fossi riuscito a distillare in prosa i ragionamenti in versi del vecchio John, avrei trovato la chiave che cercavo ormai da una decina d'anni, la soluzione a tutti i miei problemi:

I wonder, by my troth, what thou and I
Did, till we loved? Were we not weaned till then,
But sucked on country pleasures, childishly? [...]
And now good morrow to our waking souls,

Mi chiedo, santoddio, cosa abbiamo fatto
io e te, prima? Ancora non svezzati,
in fasce, succhiavamo latte rustico? [...]
E ora buongiorno, nostre anime sveglie,

For God's sake hold your tongue, and let me love
Per Dio, sta' un po' zitto, lasciami amare

Naturalmente non era vero, e sarebbe stato meglio imparare lo spagnolo in vista dei balli latini. Ma intanto, imparando a memoria un incipit, una singola strofa, un verso qua e là, prendevo il ritmo e capivo, piano piano, il gioco di Donne. Che è un poeta barocco, un giocoliere, un amante dello svolazzo, ma a differenza di altri poeti a cui assomiglia e da cui magari ha imparato - Giambattista Marino, per dirne uno italiano - non gioca mai solo per giocare. La sua logica antitetica è ferrea e incalzante come i versi, per lo più divisi in unità logiche e metriche:

Why should we rise / because 'tis light?
Did we lie down / because 'twas night?

Ma dietro a questa logica ferrea - e qui entra in gioco come al solito l'imponderabile, quel che si può illustrare ma non dimostrare - si sente che c'è qualcosa di vero, una donna amata, il vero dispiacere di vederla andare via la mattina, perché il mondo chiama e lei, dice, ha da fare.

La canzone questa volta ricalca la logica e la versificazione di Donne, invece di forzarla. I tetrametri dei primi quattro versi di ogni strofa vengono divisi in due. Le frasi della linea melodica, qui, sono scandite e tronche. I due versi conclusivi, invece, più lunghi (pentametri) e discorsivo/amorosi, vengono ripetuti e lasciati andare un po' di più. Per il resto, nell'arrangiamento, poche decorazioni progressive, come a sottolineare il procedere dell'argomentazione. John Donne, alla fine, vale la pena seguirlo: ha sempre ragione lui.

Buon ascolto.

martedì 21 giugno 2016

William Blake - The Tyger (1790-92)



Prima di dire qual è, da sempre, il mio problema con Blake, conviene mostrare la poesia con sotto la mia traduzione. Eccola, la filastrocca più misteriosa e inquietante della storia della letteratura inglese:

Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

In what distant deeps or skies,
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?

And what shoulder, & what art,
Could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
What dread hand? & what dread feet?

What the hammer? what the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? what dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?

When the stars threw down their spears
And water'd heaven with their tears,
Did he smile his work to see?
Did he who made the Lamb make thee?

Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?


Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
ha plasmato la simmetria fatale?

In che cieli o fondali remoti
forgiato il fuoco degli occhi?
Con che ali osa levarsi?
Con che mano ghermire la fiamma?

E quale arte, e che vigore
ti avrà mai incordato il cuore?
E quando ha dato il primo colpo,
che paurosa mano, quale piede?

Che catena? Quale martello?
Che fornace per il tuo cervello?
Quale incudine, quale presa
ha afferrato il tuo terrore?

Quando le stelle hanno calato le spade
e bagnato la terra di lacrime
la sua opera gli è sembrata bella?
Ti ha fatto lo stesso che ha fatto l'Agnello?

Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
osa plasmare la simmetria fatale?


Il mio problema con Blake - un problema che ho dal secondo anno di università - deriva dal fatto che sono cerebrale, e voglio avere prove tangibili dell'abilità degli scrittori e delle scrittrici che leggo. Questo, con i poeti, non è sempre possibile: Emily Dickinson, per esempio, è quasi impossibile coglierla nell' "atto della grandezza". Le sue poesie sembrano trotterellare innocue, come un gatto ingobbito su un prato dove vola una mosca, finché un verso non lascia spazio al seguente e chissà come - nel frattempo avevamo sbattuto gli occhi - il gatto è balzato in aria e la mosca è sparita. Ted Hughes, nei suoi momenti migliori, fa più o meno lo stesso effetto, anche se in questo caso vien più da pensare allo sguardo di una volpe o al salto di un luccio. Sono poeti che non sai come fanno, a scrivere da Dio (l'espressione non è casuale, vista la poesia di cui si parla), ma in qualche modo lo fanno.

Blake però non mi fa questo effetto, anche se le sue poesie sono ancora più semplici di quelle della Dickinson. Le sue cose brevi mi suonano quasi sempre come filastrocche moraleggianti o sentimentali. I suoi poemi mistico-filosofici - forse perché sono passati duecento anni - mi sembrano pedestri e prevedibili, semplici inversioni della dottrina cristiana. Un'anima semplice senza l'abilità del balzo - un sopravvalutato, come quasi tutti i poeti a cui è stata appiccicata l'etichetta di romantici.

Blake non mi coglie di sorpresa - non come fanno la Dickinson e Ted Hughes, perlomeno. L'unica cosa sorprendente di Blake è che quando poi arriva a sorprendermi, quelle rare volte che lo fa, ci riesce in modo cerebrale. Una poesia come "The Tyger" funziona perché è semplice e diretta come le altre - è una piccola filastrocca filosofica, di fatto - però non ha nessun messaggio da trasmettere. Il trucco è un po' quello di tutte le religioni e di tutti i finti poeti del mondo: butta là una manciata di cose oscure, contraddittorie o incomprensibili e sembrerai profondo.

"The Tyger" è un testo religioso senza religione: c'è questa tigre che sembra creata direttamente da un Dio, o forse dall'uomo, come potrebbe indicare il riferimento prometeico dell'ottavo verso. A tratti la tigre sembra simboleggiare la morte, a tratti il male: in ogni caso, l'impressione netta è che si tratti di una tigre simbolica e non reale - come prova l'espressione inumana e inanimata dell'illustrazione di Blake. La natura simbolica dell'animale porta naturalmente il lettore - già incline di suo ad allegorizzare - a cercare un significato "profondo". Come sempre, nei testi letterari, il significato più profondo non c'è, e a raschiare la pagina si trova quella seguente: ma la poesia è costruita in modo tale da invitare una lettura simbolica, e allo stesso tempo da eluderla.


Mi sono contraddetto varie volte, il che a Blake piacerebbe moltissimo. Per riassumere: 1) Le poesie di Blake sono semplici, ma non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson; 2) Ne consegue che "The Tyger" non dovrebbe sorprendermi; 3) Eppure lo fa, anche se non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson. Aggiungo che per capirla non c'è bisogno di conoscere la bislacca cosmogonia di Blake, e neanche di aver letto l'equivalente Song of Innocence "The Lamb" (cui allude il verso 20). Per apprezzarla meglio, però, è una buona idea quella di immaginarsela nella cornice illustrativa creata con gran fatica dal poeta stesso (si veda l'immagine qui sopra). La tradizione letteraria anglosassone, incentrata sulla parola e basata sulle edizioni critiche, ha tramandato queste poesie come testi: ma Blake era un grande incisore, e "The Tyger", sopra quella tigre disegnata e fra i rami di quell'albero, scritta in caratteri arancioni come le striature della bestia, fa tutt'un altro effetto.

Quanto alla canzone: per complicare ulteriormente le cose, o confermare l'apparenza di semplicità complicata della poesia, si è pensato di farne una canzoncina new wave estiva e commerciale. Troppo spesso pensiamo ancora alla poesia romantica, o alla poesia in generale, come a una sequela di versi gnomici, amorosi o libertari declamati a gran voce in cima a una montagna, col vento che scompiglia i lunghi capelli del sensibilissimo artista. È ora di cambiare. Ma forse quest'ultima frase contraddice tutto quel che ho detto prima.

In ogni caso - buon ascolto.