giovedì 28 settembre 2017

Christina Rossetti, "Song" (1848)

Sulla lingua e sulla letteratura inglese ho una riserva inesauribile di teorie - purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, del tutto impossibili da provare, e quindi non riferibili in un saggio o in una monografia accademica. Potrei parlarne al bar, ma nei bar intorno all'università si parla di fondi ministeriali e di calcio. Questo blog, d'altro canto, è perfetto: niente bibliografia, niente abstract, e una decina scarsa di lettori.

Ecco la teoria con cui voglio aprire questa introduzione a una poesia di Christina Rossetti: ci vogliono almeno cento anni di attività letteraria, in un certo genere o settore, per produrre un capolavoro, una grande scrittrice o un grande scrittore. Un secolo di romanzi (moltissimi scritti da donne) produce Jane Austen, e poi Charles Dickens e George Eliot (alias Marian Evans). Un secolo di teatro popolare e di poesia produce William Shakespeare, e poi John Donne, Milton e gli altri. Christina Rossetti, quindi - critiche letterarie femministe, smettete di leggere QUI - non è una grande poetessa, ma non per colpa sua: scrive in una tradizione che ancora non è matura.

Ora, la teoria sulla tradizione che produce grandi scrittrici e scrittori, e non viceversa, non è mia, ma di T.S. Eliot (Tradition and the Individual Talent, 1919) - forse il più grande produttore di teorie non provabili della storia. Quello che ci aggiungo io, e che non saprei ben spiegare sul piano storico-letterario ma penso lo stesso sia vero, è che in certi periodi questa cosa vale anche per le divisioni di genere. Ovvero: quando scrive Christina Rossetti, dagli anni Quaranta dell'Ottocento in poi, le isole britanniche hanno già almeno trecento anni di attività poetica alle spalle. Ma questa attività poetica era quasi tutta maschile, e una donna che voglia scrivere, come Christina, ha come modelli solo Shakespeare Donne Herbert Milton Dryden Pope Keats eccetera - e nel caso della signorina Rossetti, mettiamoci anche Dante, così amato da suo padre che suo fratello (Dante Gabriel) ne porta il nome. Non ci sono, insomma, modelli di come far parlare in poesia una voce femminile - o comunque ce ne sono pochi, e il punto di vista autoriale è sempre maschile. La Rossetti ed Elizabeth Barret Browning, insomma, sono quelle che aprono la strada: un centinaio di anni dopo, ecco sbucare fuori Sylvia Plath (che è americana, il che mi fa pensare che se allargo la visione al di là dell'Atlantico non so dove infilare quel fenomeno della Dickinson: ma insomma, non si possono infilare tutti i calzini nello stesso cassetto).

Certo, il fatto che la Rossetti non scriva grandi poesie si potrebbe leggere anche come conseguenza dello scarso numero di poetesse pubblicate o della sua vita appartata - ma alla fine la questione non cambierebbe poi tanto, e riuscirei a dimostrare che la penuria di poetesse e la vita appartata di Christina rientrano nel mio grande disegno teorico. Ad ogni modo, a proposito della vita appartata: Christina, figlia di un patriota italiano in esilio, dopo un'infanzia vivace un po' decide di, un po' è costretta a murarsi viva in casa. Rifiuta vari matrimoni e si rifugia nel suo Anglo-Cattolicesimo piuttosto intransigente (tanto che rifiuta di sposare un pre-raffaellita perché si è fatto cattolico - l'Anglo-Cattolicesimo fa parte della Chiesa Anglicana). Le sue poesie, influenzate da Dante (dicono i critici) ma soprattutto da Keats (dicono i critici, e anch'io), sono un misto un po' inquietante di morbosità, religione e sensualità deviata. Molta della sensualità è nel suono e nel movimento dei versi, di solito brevi, spesso uniti da rime irregolari. Quella che segue è una delle poesie più belle, più musicali, e tutto sommato meno inquietanti.

When I am dead, my dearest,
   Sing no sad songs for me;
Plant thou no roses at my head,
   Nor shady cypress tree:
Be the green grass above me
   With showers and dewdrops wet;
And if thou wilt, remember,
   And if thou wilt, forget.

I shall not see the shadows,
   I shall not see the rain;
I shall not hear the nightingale
   Sing on, as if in pain:
And dreaming through the twilight
   That doth not rise nor set,
Haply I may remember,
   and haply may forget.

Canzone

Quando son morta, caro
   niente canzoni tristi;
non voglio piante sulla testa,
   né l'ombra dei cipressi:
bastano l'erba verde
   la pioggia e la rugiada
E se ti va ricordami,
   se non ti va dimentica.

Non vedrò più le ombre,
   non vedrò più la pioggia;
non sentirò l'usignolo
   col suo dolore in gola:
sognando nel crepuscolo
   che non sorge e non tramonta,
magari ricordo tutto,
   magari tutto dimentico.

Ho scritto sopra che questa è una delle poesie migliori di Christina Rossetti - ma io, per temperamento, faccio fatica a non irritarmi anche di fronte alle sue poesie migliori. Ci sono tutte le caratteristiche del romanticismo poetico deteriore - Shelley quando non era in forma: il linguaggio pseudo-antico, pseudo-elisabettiano ("Plant thou", "wilt", "doth"), o comunque letterario ("Haply"); la fissazione sulla morte, anche questa ben poco reale e molto letteraria; la sensualità virata sulla natura ("with showers and dewdrops wet"); le inversioni ("dewdrops wet", per l'appunto). L'elenco è in ordine sparso, proprio per dare l'idea della mia irritazione.

Insomma, questa è una poesia a cui non ho mai prestato grande attenzione - ma poi ho provato a metterla in musica, e allora ho capito perché ci sono accademici che impazziscono per lo stile poetico di Christina Rossetti. Proprio quel verso che mi irrita per la sensualità deviata ("with showers and dewdrops wet") è in effetti una delle migliori rese sonore del sesso che io abbia mai sentito: tutte quelle s, quelle sc, quel "wet" finale che costringe la lingua a soffermarsi sulla t e a trasformarla quasi in una bagnatissima affricata. Peccato parli solo di pioggia e di rugiada. La musica delle vocali è spesso funambolica, come ci si accorge se si è costretti a cantarle: "Sing no sad songs for me". La Rossetti riesce a variare continuamente il ritmo di versi essenzialmente trimetri, e quindi molto brevi e facili alla cantilena. Insomma, come canzone questa poesia è effettivamente un capolavoro - il che non smentisce la mia teoria, perché se il suono è perfetto, la perfezione completa aspetta Sylvia Plath, Fleur Adcock, Anne Stevenson e le altre.

Però bisogna dire che se Yeats si fa fatica a musicarlo, se con la poesia delle origini si rischia la monotonia ritmica, qui la musica esce quasi spontanea dai versi: come si addice al tema, al suono e alla lingua anticata, ne viene fuori un prodotto tardo del revival folk britannico degli anni Sessanta. Buon ascolto.

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