martedì 10 luglio 2018

Gerald Manley Hopkins, "Pied Beauty" (fra il 1876 e il 1889)


A dire la verità, avrei voluto musicare "The Windhover", che fra le poesie di Gerald Manley Hopkins è la più famosa, la più misteriosa, la più difficile da tradurre - e, ahimé, la più impossibile da cantare. Non che sia misteriosa nel senso che non si capisce di cosa parla: da quel punto di vista è facile. "The Windhover" parla di Cristo, o di Dio, o dello Spirito Santo, che la persona del poeta vede volare la mattina, "servo del mattino", "delfino del regno della luce". Ma il "di cosa parla" è sopravvalutato, nella lettura comune delle poesie: Petrarca parla di Laura, Leopardi parla della speranza del sabato tradita dalla noia della domenica. Una volta che ce l'hanno spiegato stiamo tranquilli, abbiamo il nostro vasetto di conoscenza letteraria in conserva: quello che non abbiamo capito è perché dovremmo leggere Petrarca, Leopardi, Gerald Manley Hopkins.

Non ho una risposta generale a queste domande, ma posso raccontare qualcosa sulla mia lettura di Hopkins. Intorno al 2013 sono a Londra, come quasi tutte le estati, per studiare alla British Library e fare un po' di vacanza. Non ricordo perché, ma so che sono agitato, che non riesco a calmare il respiro, e il pomeriggio di Soho non aiuta: caldo, poca aria, molto rumore, lavori a Oxford Circus. Le librerie di Charing Cross Road hanno quasi tutte chiuso a favore di centri chiropratici cinesi e negozi di ciarpame, ma qualcuna resiste alla civiltà digitale. La mia tirchieria mi attira verso il banchetto dei libri a una sterlina - manuali di cobol, romanzi sconosciuti, e i Selected Poems di Hopkins. Apro il libro, e vado a cercare "The Windhover", che conosco già perché l'ho letta ai tempi dell'Università. La leggo. Mi mette a posto il respiro. La rileggo. Porto via il volumetto, che mi accompagnerà al residence e in Italia, ed è ancora nella mia libreria:

I caught this morning morning's minion, king-
   dom of daylight's dauphin, dapple-dawn-drawn Falcon, in his riding

Ho colto al mattino del mattino il servo, del re-
   ame del dì il delfino, Falco maculato albatrainato, in volo

In questi due versi c'è tutta la perfezione delle poesie migliori di Gerald Manley Hopkins: sai "di cosa parla", più o meno - è una poesia religiosa - ma non capisci bene cosa sta dicendo. Se ti lasci cullare dal ritmo martellante (basti guardare quel "dapple-dawn-drawn": tre parole, tre sillabe e tre accenti forti), dall'allitterazione insistita ("dom of daylight's dauphin, dapple-dawn"), dalle ripetizioni allitteranti ("morning morning's minion"), finisci per renderti conto che non importa tanto il cosa quanto il come. Hopkins ci sta facendo il resoconto di una visione mistica, e la sostanza non è tanto in quello che ci mostra, quanto in quello che ci fa sentire. Come capita spesso nella letteratura religiosa, "The Windhover" è una poesia molto sensuale.

Hopkins lo sapeva, di essere un poeta sensuale. Nato nel 1844 a Stratford da genitori borghesi e anglicani, Gerald studia a Oxford,  e nel 1866 si converte al cattolicesimo. Nel 1868 decide di diventare un gesuita, e immediatamente brucia tutte le poesie scritte fino a quel momento. Naturalmente si rimette poi a scrivere, sempre tormentandosi per la superbia implicita nell'atto dello scrivere, e forse per il piacere fisico che gli dà scrivere quei versi, dirseli a mezza voce allo scrittoio. Muore di tifo nel 1889, praticamente sconosciuto. Le sue poesie verranno pubblicate in volume solo nel 1918, quando incontreranno il gusto di T.S. Eliot e di tutta una generazione ormai abituata al frammentario, all'allusione e al salto logico.

Io ho pena per Hopkins, lo ammiro e lo ringrazio, perché mi ha messo a posto quando ero in disordine. Ho provato a musicare "The Windhover", ma era troppo, per la struttura semirigida di una canzone pop. Perciò mi sono dovuto accontentare di "Pied Beauty", che si limita ad affermare quello che "The Windhover" è, o fa, coi versi: una celebrazione della bellezza variopinta e maculata della natura, fatta da un grande poeta non al massimo delle forma. Una poesia che si legge come un manifesto - tanto è vero che negli anni dell'università l'avevo stampata e attaccata a un muro di camera mia, al posto di Jim Morrison o di Che Guevara.

E a dire il vero, a rileggerla e a cantarla, mi rendo conto che non è un capolavoro ma è una grande poesia, e che siamo a miglia di distanza dalla rubrica "Frutto di un progetto" dei testimoni di Geova. Io, di certo, non sarei mai capace di scrivere una "Pied Beauty", perlomeno senza l'aiuto della musica. Buona lettura, e buon ascolto.


Glory be to God for dappled things -
   For skies of couple-colour as a brinded cow;
      For rose-moles all in stipple upon trout that swim;
Fresh-firecoal chestnut-falls; finches' wings;
   Landscape plotted and pieced - fold, fallow, and plough;
      And áll trádes, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;
   Whatever is fickle, freckled (who knows how?)
      With swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;
He fathers-forth whose beauty is past change:
                                Praise him.


Gloria a Dio per le cose screziate -
   i cieli grigioarancio come pezze di mucche;
      i nei rosa puntinati sulle trote;
cascate di carbone di castagne; ali di fringuelli;
   terra a righe tratteggiata - ovile, maggese, aratro;
      e tutti i mestieri, arnesi attrezzi armeggio.

Per quel che è opposto, strano, singolare;
   pieno di svolte, di lentiggini (chissà come?)
      e svelto, lento; dolce, aspro; sfolgorante, spento;
Genera il genitore, bello al di là del mutamento:
                               Gloria.

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