venerdì 29 luglio 2016

Edward Lear, "How Pleasant to Know Mr. Lear" (1871)

A poesia bislacca, traduzione bislacca:

"How pleasant to know Mr. Lear!"
   Who has written such volumes of stuff!
Some think him ill-tempered and queer,
   But a few think him pleasant enough.

His mind is concrete and fastidious,
   His nose is remarkably big;
His visage is more or less hideous,
   His beard it resembles a wig.

He has ears, and two eyes, and ten fingers,
   Leastways if you reckon two thumbs;
Long ago he was one of the singers,
   But now he is one of the dumbs.

He sits in a beautiful parlor,
   With hundred of books on the wall;
He drinks a great deal of Marsala,
   But never gets tipsy at all.

He has many friends, lay men and clerical,
   Old Foss is the name of his cat;
His body is perfectly spherical,
   He weareth a runcible hat.

When he walks in waterproof white,
   The children run after him so!
Calling out, "He's come out in his night-
   Gown, that crazy old Englishman, oh!"

He weeps by the side of the ocean,
   He weeps on the top of the hill;
He purchases pancakes and lotion,
   And chocolate shrimps from the mill.

He reads, but he cannot speak, Spanish,
   He cannot abide ginger beer;
Ere the days of his pilgrimage vanish,
   How pleasant to know Mr. Lear!


"Che piacere conoscerlo, Lear!"
   Ha scritto dei gran volumoni!
Chi pensa sia strano e cattivo,
   chi dice che in fondo è un brav'uomo.

Ha la testa concreta e precisa,
   il naso che lascia di stucco,
il viso più o meno mostruoso,
   la barba a mo' di parrucca.

Di dita, si dice, ne ha dieci,
   contando anche quelle più grosse;
una volta faceva dei berci,
   ma ormai se non canta è lo stesso.

Si stravacca in un gran bel salotto,
   sui muri ha un sacco di libri;
passa il giorno a bere chinotto
   ma niente, ogni sera è più sobrio.

Laici e no, è pieno di amici,
   e ha un gatto, il buon vecchio Foss;
tondo come una ruota di bici,
   in testa ha un cappello un po' floscio.

Quando passa vestito di bianco,
   i bambini gli corrono dietro!
"Guardalo, l'inglese, è anco-
   ra in pigiama, quel vecchio matto!"

Lui piange in riva all'oceano,
   poi piange sulla collina;
si compra crêpe e lozioni,
   e gamberetti alla spina.

Non parla ma legge spagnolo,
   non può soffrire la birra:
i giorni ormai passano al volo,
   ma è bello conoscerlo, Lear.

Edward Lear (1812-1888) è uno dei personaggi più bislacchi della storia della letteratura inglese. Ennesimo figlio di un agente di cambio caduto in disgrazia, cresciuto più da una sorella maggiore che dalla madre morta presto, Lear era illustratore e pittore di professione. I volumes of stuff a cui si riferisce la poesia, più che volumi letterari, sono i suoi resoconti di viaggio illustrati. Dopo i trent'anni, Lear era dovuto emigrare al sud per via dell'asma e della bronchite, e questi libri di viaggio, insieme ai suoi numerosissimi paesaggi, erano il suo modo di mantenersi (con grande fatica, come attestano le lamentazioni e le annotazioni da partita doppia di molte sue lettere).

Ma non è per i quadri e per le illustrazioni che ricordiamo Lear. Nel 1845, quest'uomo grasso, goffo, epilettico e asmatico, omosessuale non dichiarato (ovviamente) nel bel mezzo dell'Età Vittoriana, pubblica un libretto di rime per bambini che di fatto rappresenta l'inizio della poesia nonsense moderna. La sua forma preferita è il limerick - un breve componimento basato su un toponimo. Di questa forma, Lear dà un'interpretazione del tutto personale: in parte perché ripete il nome di città nel verso finale, rinunciando così a creare una rima significativa e chiudendo i versi con un effetto di bathos; ma soprattutto perché i suoi limerick sono pieni di gente bizzarra e solitaria, impegnata in attività bizzarre e solitarie, e che a volte finisce per essere accoppata da altra gente, senza apparente motivo. Anche in questo caso, le illustrazioni appena abbozzate e un po' fumettistiche sono ovviamente opera dello stesso Lear:
[C'era una volta un signore di Morven / abituato a danzare coi corvi; / la gente gli disse: / "Son solo idee fisse!" / E fece a pezzetti quel tizio di Morven.]

Lear scrive poi dei poemetti più lunghi in cui vari animali, e altre strane creature, si sposano, o se ne vanno per mare, e qualunque cosa facciano piangono spesso, anche qui senza apparente motivo. E pur se le lacrime non si riesce a prenderle del tutto sul serio, e gli accoppamenti fanno pensare a Tom e Jerry più che ai penny dreadfuls, è difficile non pensare che qualcosa delle depressioni di Edward Lear, del suo senso infantile di abbandono, della difficoltà del doversi mantenere lontano da casa con la propria arte, del tenersi per sé l'amore che non può dire il proprio nome, vada in qualche modo a turbare la perfetta quiete giocosa del mondo del nonsense.

La riprova ce la dà "How pleasant to know Mr. Lear!" Il poeta si presenta come un personaggio caricaturale, grasso, nasuto, barbuto e bizzarro. I versi saltellanti, per lo più di 8 o nove sillabe e organizzati in piedi trisillabi, fanno pensare a una filastrocca, non certo a una lirica romantica. La ricerca della rima buffa o storta è evidente: l'inglesissimo parlor viene accoppiato all'italiano marsala (Lear finirà i suoi giorni a Sanremo), oh fa rima con so, la camicia da notte della persona poetica viene strappata in due dall'inarcatura (night- / Gown). Tutto ridicolo, si direbbe: ma poi arriva una quartina in cui "Lear" è inseguito dai bambini urlanti, e a ruota un'altra in cui lo ritroviamo che piange sulle rive dell'oceano e in cima a una collina. E a quel punto, se ritorniamo al primo verso della poesia, ci rendiamo conto che "How pleasant to know Mr. Lear" è per l'appunto fra virgolette, come se lo dicesse qualcun altro, come se - alla luce di quanto segue - non sia poi così scontato che sia un gran piacere, per la gente che lo guarda e lo giudica da lontano, conoscere Mr. Lear.

E invece il punto è proprio questo: Lear non è un grande poeta, ma lo leggiamo perché abbiamo voglia di conoscere "Lear" - perché c'è qualcosa di strano nelle sue poesie, qualcosa di personale, un eccesso di sentimento che guasta la purezza del nonsense e allo stesso tempo gli dà una vita che non si trova, ad esempio, nelle costruzioni perfette e glaciali di Lewis Carroll.

Come fare a dare un'idea di tutto questo in musica? Trasformando la poesia in una canzone di pop-folk-rock leggero e arioso, con una linea di canto che a tratti si inarca e sembra sul punto di rompersi. Con una piccola intro/outro di chitarra sentimentale, e allo stesso tempo un po' disarmonica. Fra le altre cose, Lear suonava diversi strumenti, chitarra compresa - io me lo immagino un po' così, malinconico e semistonato, e son sicuro che me l'immagino male.

Buon ascolto.

domenica 3 luglio 2016

John Donne, Break of day (pubbl. 1633)



"Break of day" è una delle poesie più ingegnose della letteratura inglese. Eccola qua:

Break of day

'Tis true, 'tis day; what though it be?
O wilt thou therefore rise from me?
Why should we rise because 'tis light?
Did we lie down because 'twas night?
Love, which in spite of darkness brought us hither,
should in despite of light keep us together.

Light hath no tongue, but is all eye;
If it could speak as well as spy,
This were the worst that it could say,
That being well, I fain would stay,
And that I loved my heart and honor so
That I would not from him, that had them, go.

Must business thee from hence remove?
O, that's the worst disease of love.
The poor, the foul, the false, love can
Admit, but not the busied man.
He which hath business, and makes love, doth do
Such wrong, as when a married man doth woo.

Si leva il giorno

Vero, è giorno: e allora, poi?
Perché dovremmo alzarci noi?
Solo perché non è più notte?
Per la notte si era a letto?
L'amore che con il buio ci ha sorpresi
con la luce deve tenerci presi.

Non ha lingua la luce, solo occhi;
se sapesse anche parlare, oltre che
vedere, direbbe questo:
che stavo bene e sono rimasto,
e avendo a cuore il mio cuore e l'onore
chi li aveva non ho voluto lasciare.

Hai da fare, dici, devi andare?
È il peggior male dell'amore.
I poveri, i brutti, i falsi senz'altro
lo accolgono, non l'uomo occupato.
Chi ha da fare e fa l'amore fa peggio
dell'uomo sposato che un'altra corteggia.

Questa volta la traduzione dev'essere abile, rimata, piena di trucchi e sorprese, per stare dietro alle capacità pirotecniche del poeta. John Donne (1572-1631), poeta londinese, prelato protestante di famiglia cattolica, è uno dei tanti motivi per cui conviene studiare la letteratura inglese. Quando ero studente, il primo poeta che mi ha preso è stato T.S. Eliot - a vent'anni, quando sei convinto di essere molto di più di quello che sei, quando hai le spese pagate ma ti vuoi immaginare unico sopravvissuto in un deserto di anime, Prufrock (1917) e la Waste Land (1922) hanno un fascino pressoché irresistibile. Bene, subito dopo il giovane vecchio che conosceva Ezra Pound e la Woolf è arrivato John Donne - uno che era morto trecentocinquant'anni prima. Eppure, un po' come capita con i sonetti di Shakespeare, nelle sue poesie si entrava senza bisogno di un'introduzione o di una singola nota al margine.

Il perché, a distanza di più di vent'anni, mi è chiarissimo. A noi - eravamo due o tre a scambiarci citazioni, sentendoci grandi intellettuali - non interessavano le ultime poesie di Donne, cristiane e luttuose. Quello che ci affascinava di lui era la capacità di riassumere in pochi versi la cosa che ci interessava più di tutte - più della letteratura o di ogni altra arte: le ragazze, la conquista, il corteggiamento. A me in particolare, confusamente, sembrava che se fossi riuscito a distillare in prosa i ragionamenti in versi del vecchio John, avrei trovato la chiave che cercavo ormai da una decina d'anni, la soluzione a tutti i miei problemi:

I wonder, by my troth, what thou and I
Did, till we loved? Were we not weaned till then,
But sucked on country pleasures, childishly? [...]
And now good morrow to our waking souls,

Mi chiedo, santoddio, cosa abbiamo fatto
io e te, prima? Ancora non svezzati,
in fasce, succhiavamo latte rustico? [...]
E ora buongiorno, nostre anime sveglie,

For God's sake hold your tongue, and let me love
Per Dio, sta' un po' zitto, lasciami amare

Naturalmente non era vero, e sarebbe stato meglio imparare lo spagnolo in vista dei balli latini. Ma intanto, imparando a memoria un incipit, una singola strofa, un verso qua e là, prendevo il ritmo e capivo, piano piano, il gioco di Donne. Che è un poeta barocco, un giocoliere, un amante dello svolazzo, ma a differenza di altri poeti a cui assomiglia e da cui magari ha imparato - Giambattista Marino, per dirne uno italiano - non gioca mai solo per giocare. La sua logica antitetica è ferrea e incalzante come i versi, per lo più divisi in unità logiche e metriche:

Why should we rise / because 'tis light?
Did we lie down / because 'twas night?

Ma dietro a questa logica ferrea - e qui entra in gioco come al solito l'imponderabile, quel che si può illustrare ma non dimostrare - si sente che c'è qualcosa di vero, una donna amata, il vero dispiacere di vederla andare via la mattina, perché il mondo chiama e lei, dice, ha da fare.

La canzone questa volta ricalca la logica e la versificazione di Donne, invece di forzarla. I tetrametri dei primi quattro versi di ogni strofa vengono divisi in due. Le frasi della linea melodica, qui, sono scandite e tronche. I due versi conclusivi, invece, più lunghi (pentametri) e discorsivo/amorosi, vengono ripetuti e lasciati andare un po' di più. Per il resto, nell'arrangiamento, poche decorazioni progressive, come a sottolineare il procedere dell'argomentazione. John Donne, alla fine, vale la pena seguirlo: ha sempre ragione lui.

Buon ascolto.