martedì 21 giugno 2016

William Blake - The Tyger (1790-92)



Prima di dire qual è, da sempre, il mio problema con Blake, conviene mostrare la poesia con sotto la mia traduzione. Eccola, la filastrocca più misteriosa e inquietante della storia della letteratura inglese:

Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

In what distant deeps or skies,
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?

And what shoulder, & what art,
Could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
What dread hand? & what dread feet?

What the hammer? what the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? what dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?

When the stars threw down their spears
And water'd heaven with their tears,
Did he smile his work to see?
Did he who made the Lamb make thee?

Tyger Tyger, burning bright,
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?


Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
ha plasmato la simmetria fatale?

In che cieli o fondali remoti
forgiato il fuoco degli occhi?
Con che ali osa levarsi?
Con che mano ghermire la fiamma?

E quale arte, e che vigore
ti avrà mai incordato il cuore?
E quando ha dato il primo colpo,
che paurosa mano, quale piede?

Che catena? Quale martello?
Che fornace per il tuo cervello?
Quale incudine, quale presa
ha afferrato il tuo terrore?

Quando le stelle hanno calato le spade
e bagnato la terra di lacrime
la sua opera gli è sembrata bella?
Ti ha fatto lo stesso che ha fatto l'Agnello?

Tigre, tigre, bruci forte,
dentro al bosco della notte:
quale occhio o mano immortale
osa plasmare la simmetria fatale?


Il mio problema con Blake - un problema che ho dal secondo anno di università - deriva dal fatto che sono cerebrale, e voglio avere prove tangibili dell'abilità degli scrittori e delle scrittrici che leggo. Questo, con i poeti, non è sempre possibile: Emily Dickinson, per esempio, è quasi impossibile coglierla nell' "atto della grandezza". Le sue poesie sembrano trotterellare innocue, come un gatto ingobbito su un prato dove vola una mosca, finché un verso non lascia spazio al seguente e chissà come - nel frattempo avevamo sbattuto gli occhi - il gatto è balzato in aria e la mosca è sparita. Ted Hughes, nei suoi momenti migliori, fa più o meno lo stesso effetto, anche se in questo caso vien più da pensare allo sguardo di una volpe o al salto di un luccio. Sono poeti che non sai come fanno, a scrivere da Dio (l'espressione non è casuale, vista la poesia di cui si parla), ma in qualche modo lo fanno.

Blake però non mi fa questo effetto, anche se le sue poesie sono ancora più semplici di quelle della Dickinson. Le sue cose brevi mi suonano quasi sempre come filastrocche moraleggianti o sentimentali. I suoi poemi mistico-filosofici - forse perché sono passati duecento anni - mi sembrano pedestri e prevedibili, semplici inversioni della dottrina cristiana. Un'anima semplice senza l'abilità del balzo - un sopravvalutato, come quasi tutti i poeti a cui è stata appiccicata l'etichetta di romantici.

Blake non mi coglie di sorpresa - non come fanno la Dickinson e Ted Hughes, perlomeno. L'unica cosa sorprendente di Blake è che quando poi arriva a sorprendermi, quelle rare volte che lo fa, ci riesce in modo cerebrale. Una poesia come "The Tyger" funziona perché è semplice e diretta come le altre - è una piccola filastrocca filosofica, di fatto - però non ha nessun messaggio da trasmettere. Il trucco è un po' quello di tutte le religioni e di tutti i finti poeti del mondo: butta là una manciata di cose oscure, contraddittorie o incomprensibili e sembrerai profondo.

"The Tyger" è un testo religioso senza religione: c'è questa tigre che sembra creata direttamente da un Dio, o forse dall'uomo, come potrebbe indicare il riferimento prometeico dell'ottavo verso. A tratti la tigre sembra simboleggiare la morte, a tratti il male: in ogni caso, l'impressione netta è che si tratti di una tigre simbolica e non reale - come prova l'espressione inumana e inanimata dell'illustrazione di Blake. La natura simbolica dell'animale porta naturalmente il lettore - già incline di suo ad allegorizzare - a cercare un significato "profondo". Come sempre, nei testi letterari, il significato più profondo non c'è, e a raschiare la pagina si trova quella seguente: ma la poesia è costruita in modo tale da invitare una lettura simbolica, e allo stesso tempo da eluderla.


Mi sono contraddetto varie volte, il che a Blake piacerebbe moltissimo. Per riassumere: 1) Le poesie di Blake sono semplici, ma non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson; 2) Ne consegue che "The Tyger" non dovrebbe sorprendermi; 3) Eppure lo fa, anche se non nel modo geniale e sorprendente di Emily Dickinson. Aggiungo che per capirla non c'è bisogno di conoscere la bislacca cosmogonia di Blake, e neanche di aver letto l'equivalente Song of Innocence "The Lamb" (cui allude il verso 20). Per apprezzarla meglio, però, è una buona idea quella di immaginarsela nella cornice illustrativa creata con gran fatica dal poeta stesso (si veda l'immagine qui sopra). La tradizione letteraria anglosassone, incentrata sulla parola e basata sulle edizioni critiche, ha tramandato queste poesie come testi: ma Blake era un grande incisore, e "The Tyger", sopra quella tigre disegnata e fra i rami di quell'albero, scritta in caratteri arancioni come le striature della bestia, fa tutt'un altro effetto.

Quanto alla canzone: per complicare ulteriormente le cose, o confermare l'apparenza di semplicità complicata della poesia, si è pensato di farne una canzoncina new wave estiva e commerciale. Troppo spesso pensiamo ancora alla poesia romantica, o alla poesia in generale, come a una sequela di versi gnomici, amorosi o libertari declamati a gran voce in cima a una montagna, col vento che scompiglia i lunghi capelli del sensibilissimo artista. È ora di cambiare. Ma forse quest'ultima frase contraddice tutto quel che ho detto prima.

In ogni caso - buon ascolto.

domenica 5 giugno 2016

John Milton - Sonnet 19 (1652?)



When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent
To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"
I fondly ask. But patience, to prevent
That murmur, soon replies, "God doth not need
Either man's work or his own gifts; who best
Bear his mild yoke, they serve him best. His state
Is Kingly. Thousands at his bidding speed
And post o'er Land and Ocean without rest:
They also serve who only stand and wait."

Quando penso alla mia luce spenta
prima di mezza via, nel grande mondo oscuro,
e a quel Talento che nascosto è morte
in me inusato, pur se l'Anima tende
a servirci il mio Creatore, rendere
i conti in ordine, che non mi sgridi;
"Sudore diurno esige Dio, ma senza luce?"
chiedo, sciocco. Ma la pazienza trattiene
il borbottio e risponde: "A Dio non servono
la fatica dell'uomo e i propri doni; chi meglio
porta il suo lieve giogo, meglio serve. Egli
è Regale. Migliaia per lui percorrono
la Terra e l'Oceano senza sosta:
lo serve anche chi non parte e resta."

Un altro sonetto, d'accordo - come i due di Shakespeare, come la versione petrarchesca di Surrey. La forma breve ben si presta alla canzone folk-pop-rock, e il sonetto è quasi sempre breve, eufonico e ad effetto. Qui, tuttavia, siamo lontanissimi dalle pene d'amore stilizzate di Petrarca e dall'ironia colloquiale del Bardo. Il sonetto di Milton ha intanto uno schema rimico diverso, più intrecciato e meno facile alla lettura (uno schema parzialmente disatteso in traduzione, soprattutto con la shakespeariana consonanza finale). Non parla d'amore soddisfatto o disilluso, ma della frustrazione che il poeta prova di fronte alla cecità, e di come l'afflizione gli impedisca di servire il Creatore come vorrebbe. Ma soprattutto, mentre i sonetti di Petrarca, Surrey, Shakespeare e mille altri sono composizioni cortesi e composte, spesso argomentate per singoli versi ("Shall I compare thee to a summer's day?"), questa poesia si compone di due lunghi periodi, uno lungo sette versi e mezzo e l'altro sei e mezzo. La sintassi è complicata, tanto che in certi momenti non si capisce bene cosa stia dicendo la persona poetica, e bisogna arrivare in fondo al primo lunghissimo periodo per esserne sicuri. Come hanno detto critici molto più bravi di me, leggere Milton, qui come nel Paradise Lost, significa quasi sempre rivedere le proprie ipotesi di lettura frase per frase.

Una breve parafrasi serve a: 1) spiegare quanto è semplice, nella sostanza, quel che sta dicendo la persona poetica; 2) dimostrare che le parafrasi sono inutili. Pensando alla cecità che lo rende inabile al vero lavoro, al lavoro che gli servirebbe a non sprecare i talenti che gli ha dato il creatore, al poeta viene una rabbia tale che lo porta a fare una domanda stupida: ma come, Dio mi chiede di fare ogni giorno del lavoro, e mi toglie gli occhi? (versi 1-8). Ma la pazienza lo mette a tacere, ricordandogli che Dio non ha bisogno né della fatica dell'uomo né del frutto dei doni che lui stesso distribuisce, che ci sono già moltitudini che lo servono per terra e per mare, e che anche chi sta fermo e aspetta può essere un buon servitore (versi 8-14). La poesia, naturalmente, è tutt'altro, e molta della sua bellezza risiede nei suoi continui scarti di significato - e, per il lettore, di comprensione.

Se uno prende la prima quartina da sola, per esempio:

When I consider how my light is spent,
Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one Talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my Soul more bent

sembra che quella "Soul more bent" del quarto verso sia un'anima piegata dalle avversità, magari dalla cecità stessa. In realtà, come si scopre nel verso seguente, l'anima è più "incline" (bent) a servire il creatore con "quel talento" (that one Talent) che era stato lasciato a penzolare nel terzo verso:

To serve therewith my Maker, and present
My true account, lest he returning chide;
"Doth God exact day labour, light denied?"

La persona poetica sente di dover far fruttare il proprio talento - metterlo al servizio della rivoluzione puritana, per esempio, come Milton ha fatto fin dai primi anni Quaranta - per non incorrere nelle rampogne del Creatore che gli ha dato il talento perché ne facesse qualcosa. Nel sesto verso c'è quel verbo chide, sgridare, che sembra introdurre il discorso diretto seguente. "Dio esige (forse) il tuo lavoro di ogni giorno negandoti la luce?" verrebbe da tradurlo, pensando che sia Dio a porre la domanda, forse in modo sarcastico. Ma ancora una volta la sintassi ubriacante di Milton ci ha sbilanciato, e scopriamo che questa domanda la pone in realtà la persona poetica stessa - concludendo infine la frase principale a sette versi dall'inizio del periodo:

I fondly ask.

La domanda, nei sei versi e mezzo seguenti, viene smontata con argomenti calmi e imperiosi dalla pazienza del poeta stesso. E tuttavia, per come è fatto il sonetto, è quella domanda centrale che ci rimane in testa, e che ho deciso di mettere al centro della struttura della canzone: "Doth God exact day-labour, light denied?" Se letto in maniera lineare, il sonetto è un'auto-ingiunzione alla pazienza, a confidare nella saggezza divina. Milton il grande studioso e linguista, Milton il giovane poeta prodigio, Milton il polemista folgorante della Rivoluzione puritana, Milton che scriverà il più grande poema epico cristiano di tutti i tempi, si mette in scena come un Sansone impotente, impaziente, che si risolve infine ad aspettare istruzioni dall'alto. Ma la poesia non funziona come un pamphlet sul divorzio o sulla libertà di stampa. La poesia segue le sue regole, non permette di mentire, e in questo caso ci lascia l'impressione che la rabbia (fondly) sia più potente del ragionamento (Patience, to prevent).

Questa, perlomeno, è la mia lettura, e questa lettura sta alla base della canzone.

Buon ascolto.