venerdì 17 aprile 2020

Wilfred Owen, "Futility" (1918)




Posto qua sotto, con qualche piccola modifica, il testo di un mio intervento apparso per la prima volta su Poesia n. 305 del giugno 2015. Non ho molto da aggiungere, se non che Futility" appartiene sì alla terza fase della poesia in lingua inglese della prima guerra mondiale - quella della discesa agli inferi vista quasi con distacco - ma ricorda anche le poesie scritte da Hardy allo scoppio della guerra boera, e in particolare "Drummer Hodge" (1899). Hardy scriveva da casa, Owen manda dispacci in versi dal fronte: ma il soldato morto in Francia, non risvegliato dal sole e dal ricordo dalla semina, e il tamburino che riposava sotto "costellazioni dagli occhi strani" ("strange-eyed constellations") nell'emisfero australe si somigliano parecchio. Gli stili, certo, sono diversi: Hardy usa i suoi classici aggettivi negativi ("uncoffined") con il sentimentalismo di chi i sentimenti se li può permettere, mentre Owen si lascia giusto trascinare in una domanda retorica nella seconda strofa.

Avrei voluto musicare una poesia di Rosenberg - come si capisce dall'introduzione che segue, il mio preferito fra i poeti della prima guerra mondiale - ma non ne ho trovata nessuna che avesse la regolarità necessaria. "Futility" è the next best thing - una poesia composta, per lo più monosillabica, con una prima strofa emozionante proprio perché trattiene l'emozione (e quei deittici che dicono la differenza fra il poeta che scrive da casa e il poeta soldato: "Until this morning and this snow"). Nel musicarla ho cercato una forma armonica che fosse allo stesso tempo mobile e immobile - e quindi accordi ricorrenti, variazioni di colori con la stessa fondamentale - e ho pensato un po' a una canzone scritta da un tizio molto meno abile con le parole ma capace di esprimere in suoni lo stesso distacco doloroso: "All apologies" dei Nirvana. Anche questa, come quella, è in tonalità maggiore.

Mi sono permesso un inizio vocale e un finale un po' da chiesa. Spero di avere anch'io trattenuto il sentimento quanto basta. Ecco la poesia in inglese e in traduzione. Segue l'articolo del 2015.


Futility

Move him into the sun –
Gently its touch awoke him once,
At home, whispering of fields unsown.
Always it woke him, even in France,
Until this morning and this snow.
If anything might rouse him now
The kind old sun will know.

Think how it wakes the seeds –
Woke, once, the clays of a cold star.
Are limbs, so dear-achieved, are sides,
Full-nerved – still warm – too hard to stir?
Was it for this the clay grew tall?
– O what made fatuous sunbeams toil
to break earth’s sleep at all?


Futilità

Spostatelo al sole –
lo svegliava il suo tocco lieve
a casa, il sussurro della semina da fare,
e l’ha sempre svegliato anche in Francia,
fino a questa mattina e a questa neve.
Se qualcosa al mondo può svegliarlo
è il buon vecchio sole a saperlo.

Pensate a come sveglia i semi –
e in principio la creta di una fredda stella.
E il lento acquisto degli arti, i fianchi
innervati – ancora caldi – non li smuove?
Si è fatta alta per questo, la creta?
Perché si sono affaticati, i raggi fatui
a spezzare il sonno della terra?

***

Se non fosse che le poesie sono sempre troppo ampie o troppo irregolari per entrare negli schemi critici, i tre grandi poeti britannici della prima guerra mondiale sarebbero un perfetto specchio del conflitto che li ha uccisi – dei cambiamenti nel morale delle truppe e nella visione dei civili. Rupert Brooke è la partenza, il vago rapimento di un’azione ancora di là da venire. Le poesie di Wilfred Owen, sulle prime influenzate dall’estetismo patriottico di Brooke, finiscono per dire il rancore contro i comandanti e la pietà per i corpi fatti a pezzi. I versi di Isaac Rosenberg, infine, risuonano senza rabbia e con pietà distaccata da un deserto del dopo-bomba – anche se le bombe continuano a cadere, e il corpo di Rosenberg sparisce senza lasciare tracce la notte del primo aprile del 1918. Le ultime poesie di questo scrittore irregolare fanno pensare con quattro anni di anticipo alla desolazione post-bellica della Waste Land eliotiana.

Le poesie sono più complicate dello schema che vorrebbe contenerle – ma le poesie si possono leggere qui sotto, e lo schema è un buon punto di partenza. Rupert Brooke (1887-1915) è il primo dei tre poeti a morire – di infezione, nel corso di un trasferimento. I suoi famosi sonetti vengono pubblicati alla fine del 1914, ma non sono in molti a notarli. Dopo la morte, tuttavia, Brooke viene lodato da personalità di spicco come Winston Churchill, e una nuova raccolta delle sue opere (1914 and other Poems, giugno 1915) diventa tanto popolare che finirà per vendere trecentomila copie nel giro del decennio successivo. Le sue poesie, nella fase iniziale, influenzano tutti gli altri poeti di guerra britannici, con la significativa eccezione di Isaac Rosenberg. Il suo sonetto più patriottico, “The Soldier”, diventerà una delle poesie più antologizzate dell’intera tradizione britannica.

La popolarità di Brooke è presto spiegata, così come è facile capire perché i critici letterari gli abbiano voltato le spalle nel giro di un paio di decenni. Le sue poesie sono opera di un giovane benestante e istruito che ha un concetto romantico della vita, e soprattutto della morte. Brooke era già piuttosto noto come poeta e come studioso, e si può dire fosse il principale esponente di un gruppo di versificatori definiti “georgiani”. Questi scrittori usavano forme tradizionali e versi aggraziati per raccontare emozioni semplici e innocenti: Brooke trasferisce questi modi e questi sentimenti alla sua visione romantica della partenza per il fronte, e ne scaturiscono componimenti di grande bellezza incantatoria e dal senso molto vago, a tratti confuso. La grande avvenenza dello scrittore, la sua morte prematura quando il conflitto è ancora giovane, permettono ai politici e ai propagandisti di trasformarlo nel simbolo perfetto di un’Inghilterra giovane e desiderosa di coprirsi di gloria. Sul Times del 26 aprile 1914, Churchill scrive che la voce del poeta defunto “è più vera di qualsiasi altra voce, più elettrizzante, più capace di rendere giustizia alla nobiltà della nostra gioventù sotto le armi” – e in tutto il resto del necrologio, le lodi per il poeta si mescolano alla celebrazione del soldato caduto da giovane, e quindi caro agli dei (il fatto che Brooke non è morto al fronte viene deliberatamente lasciato in ombra).

La bellezza vaga e confusa dei versi di Brooke è particolarmente evidente nel sonetto “The Soldier”, che illustra anche i motivi per cui il sangue del giovane poeta-martire diventa subito il campione esemplare di tutto il “dolce vino rosso della gioventù” (da un’altra sua poesia) versato sui campi di Francia. Nei quattordici versi di “Il soldato”, la parola England viene reiterata quattro volte, e – insieme alle due ripetizioni dell’aggettivo English e al sostantivo home, che sta ancora per l’Inghilterra – serve a rendere familiare ciò che è altrimenti estraneo e minaccioso. Se muoio, dice la persona del poeta a un anonimo interlocutore, ricordati che “c’è un pezzo di prato straniero | che è per sempre Inghilterra”. Il mio corpo diventerà magari polvere, ma sarà polvere di “un corpo inglese [...] benedetto dai soli di casa”. Il ritmo ipnotico già dal primo verso (“If I should die, think only this of me”: un pentametro giambico perfetto), le allitterazioni, i parallelismi e le inversioni (“In that rich earth a richer dust concealed”) mettono in ombra l’ideologia del componimento, che non è solo patriottica ma anche apertamente xenofoba. La polvere inglese è “più ricca” della polvere straniera – non solo dei resti mortali dei nemici tedeschi, ma anche, secondo logica, di quelli degli alleati francesi, nonché dei compatrioti scozzesi, gallesi e irlandesi.

Nonostante i riferimenti alla “polvere” e al “corpo”, la morte cantata da Rupert Brooke non è reale disfacimento fisico, ma una sorta di deliquio e sperdimento post-romantico – in guerra, argomenta un altro sonetto, “niente turba la lunga pace ilare del cuore | se non lo strazio, e anche lo strazio ha fine; | e la Morte è l’amico e il nemico peggiore.” Le poesie di Brooke appartengono ai prodromi e al primissimo periodo del conflitto, e hanno senso – il senso vago di cui si è detto soprasoltanto fino alle grandi carneficine come quella della Somme. In questa prima fase, anche Wilfred Owen (1893-1918) scrive versi estetizzanti: ma dal 1917 in poi, e dopo l’incontro con Sigfried Sassoon (il più satirico dei poeti di guerra inglesi), il suo talento fiorisce a una velocità vertiginosa, tipica dei momenti di grave crisi. Nel 1963, leggendo i primi componimenti di Owen, Cecil Day Lewis si dirà “stupefatto dalla trasformazione improvvisa di un poeta molto minore in una figura molto più grande.”

La grandezza dell’Owen maturo sta nella sua capacità di alternare l’indignazione di Sassoon a una molto più grande capacità di compassione – e almeno a tratti, nel saper esprimere entrambi i sentimenti con una dolcezza musicale degna del suo amato Keats. "Dulce et Decorum Est", sempre presente in tutte le antologie della letteratura britannica, si apre sulla descrizione dei soldati sfiniti e calzati di sangue”, procede con la cronaca diretta di un attacco nemico (“Gas! Gas! Svelti, ragazzi”), culmina in una serie di versi “petrosi” e quasi impronunciabili sull’agonia di un commilitone (il sangue esce “ gargling from the froth-corrupted lungs, | Obscene as cancer, bitter as the cud | Of vile, incurable sores on innocent tongues”), e si conclude con un’invettiva diretta ai civili e ai politici lontani ed incuranti, che continuano a raccontare ai giovani assetati di gloria la "vecchia menzogna" a cui allude il titolo ("Dulce et decorum est | pro patria mori"). La nota polemica non stona perché arriva alla fine, dopo una sequela di versi narrativi strazianti ma realistici. La marcia sfiancante dei militi “piegati in due come vecchi mendicanti”, la fine miseranda del “qualcuno” che il poeta vede “annegare” nel gas, i sogni in cui quel qualcuno torna a visitare “la vista inerme” dello scrittore: tutti questi dettagli materiali e psicologici trasformano un generico sentimento anti-bellico nel grido articolato e rabbioso di un individuo in un luogo specifico.

Anche se poesie come “Dulce et Decorum Est” sprigionano una potenza raramente eguagliata nella storia della letteratura in lingua inglese, è forse in altri versi più pacati e raccolti che la scrittura di Owen dimostra tutta la sua impressionante, velocissima maturazione. La prima strofa di “Futility” è un esempio di come si possa salutare in modo sentito e personale un morto qualunque, identificato soltanto come uomo proveniente dalla campagna inglese. Già il primo verso (“Move him into the sun”, “Spostatelo al sole”), con la sua semplicità anglosassone monosillabica e il suo compassionevole imperativo, dice tutta la pena meglio che se la pena venisse detta. Dopo questo gentile ordine iniziale, la persona del poeta – Owen era ufficiale dell’esercito britannico – racconta di come il lieve tocco del sole usasse svegliare il soldato quando non era altro che un uomo dei campi, e persino in Francia, sotto le armi, “fino a questa mattina e a questa neve”. Solo a fine strofa sappiamo per certo che il soldato è morto – perché “Se qualcosa al mondo può svegliarlo | è il buon vecchio sole a saperlo”. Senza bisogno di fare ricorso a una simbologia esplicita, Owen raffigura il sole come un antico dio benigno ma tutto sommato impotente – la seconda strofa ci dice che è capace di creare la vita, ma non di ridarla. Il ritmo è lento e composto: cinque versi con quattro accenti sono incorniciati fra due versi di tre. Le rime imperfette e visive (sun | once | France | now | know) legano i versi ma impediscono alla strofa di correre. Gli unici giudizi di valore sono positivi e si riferiscono al sole “buono”, dal tocco “lieve” che è come un “sussurro”.

Questa equanimità del racconto e del verso anima un’altra delle grandi poesie di Wilfred Owen, “Strange Meeting”. Qui la tecnica della rima imperfetta si applica alla misura del distico – come se Owen fosse un Pope senza illuminismo, un poeta raziocinante perso nella follia irrazionale della guerra, che si rifiuta perciò di chiudere i suoi ragionamenti nella saldatura precisa della rima baciata. Sfuggito chissà come alla furia della battaglia, il poeta si trova in un “profondo cupo tunnel” che si rivela presto come l’inferno vero e proprio, dove risuonano i “gemiti di dormienti appesantiti, | bloccati dalla morte o dai pensieri”. Non è un Averno qualunque: è l’inferno dei combattenti in trincea, che dormono senza mai riposare. Qui Owen-Enea-Dante incontra un soldato morto, che alla fine si identifica come “il nemico che hai ammazzato, amico”. La poesia si chiude su una strana nota di fratellanza ultraterrena, oltre la pietà, che finisce per abbracciare anche il nemico in un comune senso di futilità (“Mi son difeso, ma con mani fredde e svogliate. | Ora dormiamo...”). Il paragone con Enea e Dante è inevitabile, e allo stesso tempo mette in luce una differenza fondamentale: mentre Enea e Dante sono visitatori dal mondo di sopra, Owen è un visitatore dagli inferi, anche se il personaggio del poeta è vivo e quello del soldato tedesco (che si identificava come tale in una prima versione) è morto. In più, mentre Dante incontra semplicemente anime morte ai suoi tempi o prima, Owen si imbatte in un’anima che lui stesso ha spedito all’inferno. La Grande Guerra è la prima in cui i poeti combattono in grande numero, e scrivono non nello studiolo di casa ma al fronte – non è letteratura di guerra quella che producono, ma letteratura dalla guerra, quasi in presa diretta. I piccoli ufficiali, nelle grandi battaglie, vengono mandati a morire alla testa dei loro plotoni nella terra di nessuno, dopo lunghi bombardamenti che dovrebbero indebolire le posizioni avversarie. Il primo luglio del 1916, giorno d’inizio della battaglia della Somme, muoiono o vengono feriti 57.000 dei 120.000 soldati agli ordini del Generale Haig.

In queste condizioni, è perciò ancora più straordinario che un soldato semplice senza alcun privilegio come Isaac Rosenberg (1890-1918) sia riuscito a scrivere poesie straordinarie, e splendidamente distaccate, come “Break of Day in the Trenches”. Figlio di ebrei russi emigrati a Londra nel 1897, Rosenberg allo scoppio della guerra è in Sudafrica. Probabilmente è la povertà a
vincere il suo passivo pacifismo. È artista visivo e poeta già prima della guerra, indeciso fra le due arti e molto più influenzato da Blake che dal Keats di Owen e Brooke. Ma se i suoi componimenti prebellici sono più interessanti per la tradizione a cui si ispirano che per il loro valore intrinseco, l’arrivo al fronte, ancora una volta, sembra portare una forza e una sicurezza di tono quasi immediate. I primi due versi di “Break of Day” risuonano con la concisione ponderosa di un classico: “The darkness crumbles away – | It is the same old druid Time as ever” (“Il buio si sbriciola – | è il vecchio tempo druido di sempre”). Tutto è immediato e credibile, eppure anche fuori dal tempo, ancestrale, mitologico: è la descrizione di un qui e ora terribile che però, nello sbriciolarsi portentoso del buio, nel procedere sempre uguale dei millenni (il tempo “druido”), presuppone una dimensione altra che rende tutto meno reale, meno importante. In breve, il punto di vista passa dalla persona del poeta al ratto disturbato dalla presenza umana: un animale sardonico, cosmopolita, indifferente ma “vivo”, che forse sorride di scherno alla vista degli “arti alteri da atleti | meno adatti di te alla vita”. Mentre in Owen la constatazione dell’orrore porta alla pietà o alla rabbia, qui uno sguardo inflessibile e quasi sereno si posa sui corpi dilaniati come sulla poca natura scampata alle bombe. Il personaggio del poeta, con un gesto che potrebbe sembrare uno sberleffo o una sfida in poesie meno “classiche”, si adorna di uno di quei papaveri che crescono anche dai corpi dei soldati dilaniati – e il fiore vivo è meglio dei fiori dei morti. “I fiori cresciuti nelle vene degli uomini”, dice Rosenberg, “si piegano inesorabili. | Ma quello che porto all’orecchio | è salvo, giusto un po’ impolverato”.

I sentimenti ci sono, nelle poesie di Rosenberg, ma sembrano trattenuti – come se il poeta pensasse che qualsiasi reazione emotiva è insufficiente, e quindi sbagliata. In “Dead Man’s Dump”, una scena che porterebbe Sassoon a infiammarsi di sacra indignazione – per l’ottusità dei comandi e l’indifferenza dei civili – riceve un trattamento clinico. I versi brevi e per lo più staccati, le parole rare che si inframezzano a quelle di registro medio, fanno pensare ancora una volta a una voce antica quanto il mondo, che tutto ha visto e di nulla si impressiona. Le domande che interrompono la narrazione non sono quelle retoriche di Owen, ma veri interrogativi senza risposta (“Quali fantasie spietate gli hanno acceso l’anima scura? | Terra! Sono entrati in te? | Da qualche parte saranno andati, | e buttato sulla tua schiena dura | c’è il sacco della loro anima | vuoto di essenze divine e ancestrali. | Chi li ha scagliati fuori? Chi ha scagliato?”). Anche qui c’è l’agonia dei singoli soldati, raccontata con crudo realismo (“Le cervella di un uomo spiaccicate | sulla faccia di un barelliere”) ma senza il linguaggio espressionistico di “Dulce et Decorum Est”. Il poeta osserva da distanza ravvicinata, ma senza partecipare del tutto, almeno quando scrive: come quella del barelliere, forse, anche la sua anima “è andata troppo a fondo | per la tenerezza umana”.

Questa impressione è confermata dall’ultima breve poesia di Rosenberg, in cui si ritrovano tutti i temi e gli stilemi visti sopra – la concisione staccata, la dizione media impreziosita da qualche termine raro, la lontananza “mitica” dalla realtà della guerra. I giorni di “Through These Pale Cold Days” sono appunto freddi e pallidi, ma lasciano intravedere in controluce un fuoco vecchio di tremila anni e “giorni biondi e quieti”. I campi dell’Europa sepolta nelle trincee non spariscono, ma contengono simultaneamente, nell’immaginario dei soldati di religione ebraica, le “piscine di Hebron” e il “pendio estivo del Libano”. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un T.S. Eliot ebreo – ed è un’impressione paradossale, visti l’antisemitismo e il gelido puritanesimo del grande americano anglicizzato. La domanda che sorge inevitabile, invece, riguarda ciò che Rosenberg – più ancora di Brooke e Owen – avrebbe potuto fare, se il calderone che l’ha forgiato così in fretta l’avesse risparmiato.