Posto qua sotto, con qualche piccola modifica, il testo di un mio intervento apparso per la prima volta su Poesia n. 305 del giugno 2015. Non ho molto da aggiungere, se non che Futility" appartiene sì alla terza fase della poesia in lingua inglese della prima guerra mondiale - quella della discesa agli inferi vista quasi con distacco - ma ricorda anche le poesie scritte da Hardy allo scoppio della guerra boera, e in particolare "Drummer Hodge" (1899). Hardy scriveva da casa, Owen manda dispacci in versi dal fronte: ma il soldato morto in Francia, non risvegliato dal sole e dal ricordo dalla semina, e il tamburino che riposava sotto "costellazioni dagli occhi strani" ("strange-eyed constellations") nell'emisfero australe si somigliano parecchio. Gli stili, certo, sono diversi: Hardy usa i suoi classici aggettivi negativi ("uncoffined") con il sentimentalismo di chi i sentimenti se li può permettere, mentre Owen si lascia giusto trascinare in una domanda retorica nella seconda strofa.
Avrei voluto musicare una poesia di Rosenberg - come si capisce dall'introduzione che segue, il mio preferito fra i poeti della prima guerra mondiale - ma non ne ho trovata nessuna che avesse la regolarità necessaria. "Futility" è the next best thing - una poesia composta, per lo più monosillabica, con una prima strofa emozionante proprio perché trattiene l'emozione (e quei deittici che dicono la differenza fra il poeta che scrive da casa e il poeta soldato: "Until this morning and this snow"). Nel musicarla ho cercato una forma armonica che fosse allo stesso tempo mobile e immobile - e quindi accordi ricorrenti, variazioni di colori con la stessa fondamentale - e ho pensato un po' a una canzone scritta da un tizio molto meno abile con le parole ma capace di esprimere in suoni lo stesso distacco doloroso: "All apologies" dei Nirvana. Anche questa, come quella, è in tonalità maggiore.
Mi sono permesso un inizio vocale e un finale un po' da chiesa. Spero di avere anch'io trattenuto il sentimento quanto basta. Ecco la poesia in inglese e in traduzione. Segue l'articolo del 2015.
Futility
Move him into the
sun –
Gently its touch
awoke him once,
At home, whispering
of fields unsown.
Always it woke him,
even in France,
Until this morning
and this snow.
If anything might
rouse him now
The kind old sun
will know.
Think how it wakes
the seeds –
Woke, once, the
clays of a cold star.
Are limbs, so
dear-achieved, are sides,
Full-nerved –
still warm – too hard to stir?
Was it for this the
clay grew tall?
– O what made
fatuous sunbeams toil
to break earth’s
sleep at all?
Futilità
Spostatelo al sole
–
lo svegliava il suo
tocco lieve
a casa, il sussurro
della semina da fare,
e l’ha sempre
svegliato anche in Francia,
fino a questa
mattina e a questa neve.
Se qualcosa al
mondo può svegliarlo
è il buon vecchio
sole a saperlo.
Pensate a come
sveglia i semi –
e in principio la
creta di una fredda stella.
E il lento acquisto
degli arti, i fianchi
innervati –
ancora caldi – non li smuove?
Si è fatta alta
per questo, la creta?
Perché si sono
affaticati, i raggi fatui
a spezzare il sonno
della terra?
***
Se
non fosse che le poesie sono sempre troppo ampie o troppo irregolari
per entrare negli schemi critici, i tre grandi poeti britannici della
prima guerra mondiale sarebbero un perfetto specchio del conflitto
che li ha uccisi – dei cambiamenti nel morale delle truppe e nella
visione dei civili. Rupert Brooke è la partenza, il vago rapimento
di un’azione ancora di là da venire. Le poesie di Wilfred Owen,
sulle prime influenzate dall’estetismo patriottico di Brooke,
finiscono per dire il rancore contro i comandanti e la pietà per i
corpi fatti a pezzi. I versi di Isaac Rosenberg, infine, risuonano
senza rabbia e con pietà distaccata da un deserto del dopo-bomba –
anche se le bombe continuano a cadere, e il corpo di Rosenberg
sparisce senza lasciare tracce la notte del primo aprile del 1918. Le
ultime poesie di questo scrittore irregolare fanno pensare con
quattro anni di anticipo alla desolazione
post-bellica della Waste
Land
eliotiana.
Le
poesie sono più complicate dello schema che vorrebbe contenerle –
ma le poesie si possono
leggere qui sotto, e lo schema è un buon punto di partenza. Rupert
Brooke (1887-1915) è il primo
dei tre poeti a morire – di infezione, nel corso di un
trasferimento. I suoi famosi sonetti vengono pubblicati alla fine del
1914, ma non sono in molti a notarli. Dopo la morte, tuttavia, Brooke
viene lodato da personalità di spicco come Winston Churchill, e una
nuova raccolta delle sue opere (1914
and other Poems,
giugno 1915) diventa tanto popolare che finirà per vendere
trecentomila copie nel giro del decennio successivo. Le sue poesie,
nella fase iniziale, influenzano tutti gli altri poeti di guerra
britannici, con la significativa eccezione di Isaac Rosenberg. Il suo
sonetto più patriottico, “The Soldier”, diventerà una delle
poesie più antologizzate dell’intera tradizione britannica.
La
popolarità di Brooke è presto spiegata, così come è facile capire
perché i critici letterari gli
abbiano voltato le spalle nel giro di un paio di decenni. Le sue
poesie sono opera di un giovane benestante
e istruito che ha un concetto romantico della vita, e soprattutto
della morte. Brooke era già
piuttosto noto come poeta e come studioso, e si può dire fosse il
principale esponente di un gruppo
di versificatori definiti “georgiani”. Questi scrittori usavano
forme tradizionali e versi aggraziati
per raccontare emozioni semplici e innocenti: Brooke trasferisce
questi modi e questi sentimenti
alla sua visione romantica della partenza per il fronte, e ne
scaturiscono componimenti di grande
bellezza incantatoria e dal senso molto vago, a tratti confuso. La
grande avvenenza dello scrittore,
la sua morte prematura quando il conflitto è ancora giovane,
permettono ai politici e ai propagandisti
di trasformarlo nel simbolo perfetto di un’Inghilterra giovane e
desiderosa di coprirsi di
gloria. Sul Times
del 26 aprile 1914, Churchill scrive
che la voce del poeta defunto “è più vera di qualsiasi
altra voce, più elettrizzante, più capace di rendere giustizia alla
nobiltà della nostra gioventù
sotto le armi” – e in tutto il resto del necrologio, le lodi per
il poeta si mescolano alla celebrazione
del soldato caduto da giovane, e quindi caro agli dei (il fatto che
Brooke non è morto al
fronte viene deliberatamente lasciato in ombra).
La
bellezza vaga e confusa dei versi di Brooke è particolarmente
evidente nel sonetto “The Soldier”,
che illustra anche i motivi per cui il sangue del giovane
poeta-martire diventa subito il campione
esemplare di tutto il “dolce vino rosso della gioventù” (da
un’altra sua poesia) versato sui campi
di Francia. Nei quattordici versi di “Il soldato”, la parola
England
viene reiterata quattro volte,
e – insieme alle due ripetizioni dell’aggettivo English
e al sostantivo home,
che sta ancora per
l’Inghilterra – serve a rendere familiare ciò che è altrimenti
estraneo e minaccioso. Se muoio, dice
la persona
del poeta a un anonimo interlocutore,
ricordati che “c’è un pezzo di prato straniero | che
è per sempre Inghilterra”. Il mio corpo diventerà magari polvere,
ma sarà polvere di “un corpo inglese
[...] benedetto dai soli di casa”. Il ritmo ipnotico già dal primo
verso (“If I should die, think only
this of me”: un pentametro giambico perfetto), le allitterazioni, i
parallelismi e le inversioni (“In
that rich earth a richer dust concealed”) mettono in ombra
l’ideologia del componimento, che non
è solo patriottica ma anche apertamente xenofoba. La polvere inglese
è “più ricca” della polvere
straniera – non solo dei resti mortali dei nemici tedeschi, ma
anche, secondo logica, di quelli
degli alleati francesi, nonché dei compatrioti scozzesi, gallesi e
irlandesi.
Nonostante
i riferimenti alla “polvere” e al “corpo”, la morte cantata
da Rupert Brooke non è
reale disfacimento fisico, ma una sorta di deliquio e sperdimento
post-romantico – in guerra, argomenta
un altro sonetto, “niente turba la lunga pace ilare del cuore | se
non lo strazio, e anche lo strazio ha fine; | e la Morte è l’amico
e il nemico peggiore.” Le poesie di Brooke appartengono ai prodromi
e al primissimo periodo del conflitto, e hanno senso – il senso
vago di cui si è detto sopra – soltanto
fino alle grandi carneficine come quella della Somme. In questa prima
fase, anche Wilfred
Owen (1893-1918) scrive versi estetizzanti: ma dal 1917 in poi, e
dopo l’incontro con Sigfried
Sassoon (il più satirico dei poeti di guerra inglesi), il suo
talento fiorisce a una velocità vertiginosa,
tipica dei momenti di grave crisi. Nel 1963, leggendo i primi
componimenti di Owen, Cecil
Day Lewis si dirà “stupefatto dalla trasformazione improvvisa di
un poeta molto minore in una
figura molto più grande.”
La
grandezza dell’Owen maturo sta nella sua capacità di alternare
l’indignazione di Sassoon a
una molto più grande capacità di compassione – e almeno a tratti,
nel saper esprimere entrambi i sentimenti con una dolcezza musicale degna del suo amato Keats. "Dulce et Decorum Est", sempre presente in tutte le antologie della letteratura britannica, si apre sulla descrizione dei soldati sfiniti e “calzati
di sangue”, procede con la cronaca diretta di un attacco nemico
(“Gas! Gas! Svelti, ragazzi”),
culmina in una serie di versi “petrosi” e quasi impronunciabili
sull’agonia di un commilitone
(il sangue esce “ gargling from the froth-corrupted lungs, |
Obscene as cancer, bitter as the
cud | Of vile, incurable sores on innocent tongues”), e si conclude
con un’invettiva diretta ai civili e ai politici lontani ed incuranti, che continuano a raccontare ai giovani assetati di gloria la "vecchia menzogna" a cui allude il titolo ("Dulce et decorum est | pro patria mori"). La nota polemica
non stona perché arriva alla fine, dopo una sequela di versi
narrativi strazianti ma realistici.
La marcia sfiancante dei militi “piegati in due come vecchi
mendicanti”, la fine miseranda del
“qualcuno” che il poeta vede “annegare” nel gas, i sogni in
cui quel qualcuno torna a visitare “la vista
inerme” dello scrittore: tutti questi dettagli materiali e
psicologici trasformano un generico sentimento
anti-bellico nel grido articolato e rabbioso di un individuo in un
luogo specifico.
Anche
se poesie come “Dulce et Decorum Est” sprigionano una potenza
raramente eguagliata
nella storia della letteratura in lingua inglese, è forse in altri
versi più pacati e raccolti che la
scrittura di Owen dimostra tutta la sua impressionante, velocissima
maturazione. La prima strofa di
“Futility” è un esempio di come si possa salutare in modo
sentito e personale un morto qualunque,
identificato soltanto come uomo proveniente dalla campagna inglese.
Già il primo verso (“Move
him into the sun”, “Spostatelo al sole”), con la sua semplicità
anglosassone monosillabica e il
suo compassionevole imperativo, dice tutta la pena meglio che se la
pena venisse detta. Dopo questo
gentile ordine iniziale, la persona
del poeta – Owen era ufficiale
dell’esercito britannico – racconta
di come il lieve tocco del sole usasse svegliare il soldato quando
non era altro che un uomo dei
campi, e persino in Francia, sotto le armi, “fino a questa mattina
e a questa neve”. Solo a fine strofa
sappiamo per certo che il soldato è morto – perché “Se qualcosa
al mondo può svegliarlo | è il
buon vecchio sole a saperlo”. Senza bisogno di fare ricorso a una
simbologia esplicita, Owen raffigura
il sole come un antico dio benigno ma tutto sommato impotente – la
seconda strofa ci dice che
è capace di creare la vita, ma non di ridarla. Il ritmo è lento e
composto: cinque versi con quattro
accenti sono incorniciati fra due versi di tre. Le rime imperfette e
visive (sun
|
once
|
France
| now | know)
legano
i versi ma impediscono alla strofa di correre. Gli unici giudizi di
valore sono positivi e si riferiscono al sole “buono”, dal tocco
“lieve” che è come un “sussurro”.
Questa
equanimità del racconto e del verso anima un’altra delle grandi
poesie di Wilfred Owen,
“Strange Meeting”. Qui la tecnica della rima imperfetta si
applica alla misura del distico – come
se Owen fosse un Pope senza illuminismo, un poeta raziocinante perso
nella follia irrazionale della
guerra, che si rifiuta perciò di chiudere i suoi ragionamenti nella
saldatura precisa della rima baciata. Sfuggito chissà come alla
furia della battaglia, il poeta si trova in un “profondo cupo
tunnel” che si rivela presto come l’inferno vero e proprio, dove
risuonano i “gemiti di dormienti appesantiti, | bloccati dalla
morte o dai pensieri”. Non è un Averno qualunque: è l’inferno
dei combattenti in trincea, che dormono senza mai riposare. Qui
Owen-Enea-Dante incontra un soldato morto, che alla fine si
identifica come “il nemico che hai ammazzato, amico”. La poesia
si chiude su una strana nota di fratellanza ultraterrena, oltre la
pietà, che finisce per abbracciare anche il nemico in un comune
senso di futilità (“Mi son difeso, ma con mani fredde e svogliate.
| Ora dormiamo...”). Il
paragone con Enea e Dante è inevitabile, e allo stesso tempo mette
in luce una differenza fondamentale: mentre Enea e Dante sono
visitatori dal mondo di sopra, Owen è un visitatore dagli inferi,
anche se il personaggio del poeta è vivo e quello del soldato
tedesco (che si identificava come
tale in una prima versione) è morto. In più, mentre Dante incontra
semplicemente anime morte
ai suoi tempi o prima, Owen si imbatte in un’anima che lui stesso
ha spedito all’inferno. La Grande
Guerra è la prima in cui i poeti combattono in grande numero, e
scrivono non nello studiolo di
casa ma al fronte – non è letteratura di guerra quella che
producono, ma letteratura dalla
guerra, quasi
in presa diretta. I piccoli ufficiali, nelle grandi battaglie,
vengono mandati a morire alla testa dei loro plotoni nella terra di
nessuno, dopo lunghi bombardamenti che dovrebbero indebolire le
posizioni avversarie. Il primo luglio del 1916, giorno d’inizio
della battaglia della Somme, muoiono o vengono feriti 57.000 dei
120.000 soldati agli ordini del Generale Haig.
In
queste condizioni, è perciò ancora più straordinario che un
soldato semplice senza alcun privilegio
come Isaac Rosenberg (1890-1918) sia riuscito a scrivere poesie
straordinarie, e splendidamente
distaccate, come “Break of Day in the Trenches”. Figlio di ebrei
russi emigrati a Londra
nel 1897, Rosenberg allo scoppio della guerra è in Sudafrica.
Probabilmente è la povertà a
vincere
il suo passivo pacifismo. È artista visivo e poeta già prima della
guerra, indeciso fra le due arti
e molto più influenzato da Blake che dal Keats di Owen e Brooke. Ma
se i suoi componimenti prebellici
sono più interessanti per la tradizione a cui si ispirano che per il
loro valore intrinseco, l’arrivo
al fronte, ancora una volta, sembra portare una forza e una sicurezza
di tono quasi immediate.
I primi due versi di “Break of Day” risuonano con la concisione
ponderosa di un classico:
“The darkness crumbles away – | It is the same old druid Time as
ever” (“Il buio si sbriciola
– | è il vecchio tempo druido di sempre”). Tutto è immediato e
credibile, eppure anche fuori
dal tempo, ancestrale, mitologico: è la descrizione di un qui e ora
terribile che però, nello sbriciolarsi
portentoso del buio, nel procedere sempre uguale dei millenni (il
tempo “druido”), presuppone
una dimensione altra che rende tutto meno reale, meno importante. In
breve, il punto di vista
passa dalla persona
del poeta al ratto disturbato dalla
presenza umana: un animale sardonico, cosmopolita,
indifferente ma “vivo”, che forse sorride di scherno alla vista
degli “arti alteri da atleti |
meno adatti di te alla vita”. Mentre in Owen la constatazione
dell’orrore porta alla pietà o alla rabbia,
qui uno sguardo inflessibile e quasi sereno si posa sui corpi
dilaniati come sulla poca natura scampata
alle bombe. Il personaggio del poeta, con un gesto che potrebbe
sembrare uno sberleffo o una
sfida in poesie meno “classiche”, si adorna di uno di quei
papaveri che crescono anche dai corpi dei
soldati dilaniati – e il fiore vivo è meglio dei fiori dei morti.
“I fiori cresciuti nelle vene degli uomini”,
dice Rosenberg, “si piegano inesorabili. | Ma quello che porto
all’orecchio | è salvo, giusto un
po’ impolverato”.
I
sentimenti ci sono, nelle poesie di Rosenberg, ma sembrano trattenuti
– come se il poeta pensasse
che qualsiasi reazione emotiva è insufficiente, e quindi sbagliata.
In “Dead Man’s Dump”, una
scena che porterebbe Sassoon a infiammarsi di sacra indignazione –
per l’ottusità dei comandi e l’indifferenza
dei civili – riceve un trattamento clinico. I versi brevi e per lo
più staccati, le parole rare
che si inframezzano a quelle di registro medio, fanno pensare ancora
una volta a una voce antica
quanto il mondo, che tutto ha visto e di nulla si impressiona. Le
domande che interrompono la narrazione non sono quelle retoriche di Owen, ma veri interrogativi
senza risposta (“Quali fantasie
spietate gli hanno acceso l’anima scura? | Terra! Sono entrati in
te? | Da qualche parte saranno
andati, | e buttato sulla tua schiena dura | c’è il sacco della
loro anima | vuoto di essenze divine
e ancestrali. | Chi li ha scagliati fuori? Chi ha scagliato?”).
Anche qui c’è l’agonia dei singoli soldati,
raccontata con crudo realismo (“Le cervella di un uomo spiaccicate
| sulla faccia di un barelliere”)
ma senza il linguaggio espressionistico di “Dulce et Decorum Est”.
Il poeta osserva da distanza
ravvicinata, ma senza partecipare del tutto, almeno quando scrive:
come quella del barelliere,
forse, anche la sua anima “è andata troppo a fondo | per la
tenerezza umana”.
Questa
impressione è confermata dall’ultima breve poesia di Rosenberg, in
cui si ritrovano tutti
i temi e gli stilemi visti sopra – la concisione staccata, la
dizione media impreziosita da qualche termine
raro, la lontananza “mitica” dalla realtà della guerra. I giorni
di “Through These Pale Cold Days” sono appunto freddi e pallidi,
ma lasciano intravedere in controluce un fuoco vecchio di tremila
anni e “giorni biondi e quieti”. I campi dell’Europa sepolta
nelle trincee non spariscono, ma contengono
simultaneamente, nell’immaginario dei soldati di religione ebraica,
le “piscine di Hebron”
e il “pendio estivo del Libano”. L’impressione è quella di
trovarsi di fronte a un T.S. Eliot ebreo
– ed è un’impressione paradossale, visti l’antisemitismo e il
gelido puritanesimo del
grande americano anglicizzato. La domanda che sorge inevitabile,
invece, riguarda ciò che Rosenberg
– più ancora di Brooke e Owen – avrebbe potuto fare, se il
calderone che l’ha forgiato così
in fretta l’avesse risparmiato.