martedì 6 settembre 2016

George Herbert, "The Altar" (1633)



Poesia concreta, poesia visiva, calligramma. Queste e altre definizioni, diverse per storia e non per uso, coprono tutta una serie di casi in cui la scrittura poetica, oltre che per essere letta, è fatta per essere guardata (o, meno spesso, sentita). Anche se si tende ad associare questo genere di componimento "doppio" al modernismo e alle neoavanguardie, l'idea di scrivere in forme mimetiche o simboliche è vecchia quanto la poesia. Molto prima di Apollinaire e Marinetti, a occupare uno dei posti d'onore nella storia di questo sottogenere è il prete anglicano George Herbert (1593-1633), che compose liriche in forma di altare e di ali di colomba.

Proveniente da una famiglia ricca, potente e ricca di talento artistico, Herbert non si conforma in niente all'idea romantica del poeta maledetto, divorziato dai buoni costumi e dalla società. Pur perseguitato dalla tisi che lo ucciderà a soli quarant'anni, Herbert fa in tempo a studiare a Cambridge, a diventare un pupillo di Giacomo I e a entrare in Parlamento, prima di diventare rettore della chiesa di Sant'Andrea a Salisbury. Mentre John Donne scrive poesie per richiamare l'attenzione di facoltosi mecenati, George Herbert, che non ne ha bisogno, raccoglie le sue solo poco prima della morte, per spedirle poi a Nicholas Ferrar, fondatore della comunità semimonastica di Little Gidding. Per questo motivo, tutte le opere di Herbert sono datate con l'anno di morte del poeta.

Little Gidding, per inciso, è il titolo di uno dei Four Quartets di T.S. Eliot. I Quartets sono il grande poema religioso del modernista americano anglicizzato, che fu fra i grandi rivalutatori della poesia metafisica (e quindi anche di Herbert), nonché il primo scrittore novecentesco capace di rendere la poesia religiosa nuovamente rispettabile. Io, che da italiano senzadio pensavo che la grande poesia potesse solo essere anticristiana, mi sono dovuto ricredere di fronte alla grandezza di questi due poeti dal temperamento affine. T.S. Eliot ho imparato ad apprezzarlo partendo dalla Waste Land e da "Prufrock". La mia maestra universitaria, letterata e cattolica, altro esempio di persona devota e intelligente, mi ha aiutato a capire perché valeva la pena di leggere Herbert.

A venticinque anni, quel che mi colpiva di poesie come "The Altar" era la loro compostezza, la forza quieta di versi capaci di placare il timore della morte - e credo fosse proprio questo, l'effetto che volevano sortire. Oggi invece mi colpisce la grande abilità di Herbert, meno spettacolare di Donne ma non per questo meno geniale. Tanto per cominciare, per creare un altare coi versi, il poeta deve prima diminuirne la lunghezza e poi aumentarla, e quindi accelerare per rallentare sul finale. A due pentametri giambici fanno seguito due tetrametri, poi otto versi di due accenti, e di nuovo due tetrametri e due pentametri. Pur costretto dalla gabbia che si è fabbricato da solo, Herbert riesce lo stesso a scrivere un componimento perfettamente organico:



Non solo "The Altar" è organico e scorrevole: è anche diviso in tre strofe/parti argomentative, che vanno a formare i tre pezzi dell'altare: nella prima, la persona poetica annuncia a Dio che gli ha costruito un altare fatto di parti create da Dio stesso; nella seconda, si spiega che la pietra di cui è fatto l'altare è il cuore di chi scrive - una pietra intagliata da Dio e fatta per celebrarNe il nome; e nella terza si dice il fine di questo altare simbolico, che è quello di continuare a cantare le lodi del signore quando la voce della persona poetica cesserà. Verrebbe da pensare a un corrispettivo devozionale del Sonetto 18 di Shakespeare (quello in cui il poeta dichiara di poter immortalare la bellezza del "fair youth" nei suoi versi), non fosse che il ragionamento di George Herbert è molto più cristianamente modesto.

Non c'è nulla di modesto invece nello stile, che è difficilissimo da tradurre. Chiunque abbia provato a scrivere una poesia o una canzone, in particolare, sa quanto è difficile comporre versi brevi a rima baciata che non scivolino immediatamente nel cliché linguistico. Per questo motivo, qui la mia versione è giocoforza più "di servizio" che in altre occasioni:

Ti dono un altare crepato, Signore,
cementato di lacrime, fatto col cuore;
   le parti le hai create tu stesso,
   mai toccate, prima di adesso.
            Un cuore solo
            È un materiale
            Che solo la tua
            potenza intaglia.
            Perciò ogni parte
            di un cuore arduo
            si unisce insieme
            a lodare il tuo nome.
   Così che quando dovrò tacere,
   saranno le pietre il mio cantore.
Fa che il tuo santo sacrificio sia il mio,
Per santificare questo altare come tuo.

Quanto alla versione cantata: compostezza, pochi strumenti, poche svolte melodiche. E per rispecchiare l'intenzione "concreta" dell'originale, l'uso di qualche suono mimetico che faccia pensare all'acqua del battesimo o al fiume della vita.

Buon ascolto.